Alberi e Funi

Potatura e abbattimento alberi d'alto fusto

Modello vegetale: un prototipo a cui ispirarsi

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Modello vegetale: un prototipo a cui ispirarsi

20 aprile 2020

Università Degli Studi Di Firenze Facoltà di Lettere e Filosofia. Corso di Laurea In Filosofia

TITOLO:

Modello vegetale: un prototipo a cui ispirarsi
Plant model: a prototype to be inspired by

RELATORE:

Prof.ssa Roberta Lanfredini

CANDIDATO:

Niccolò Ruscelli 

Anno Accademico 2019- 2020

Alle mie figlie Ester e Miriam 

Indice:

INTRODUZIONE

Seppur provenendo da un’ origine comune, piante e animali si sono evoluti in direzioni opposte. Gli animali hanno un centro di comando, le funzioni fisiologiche sono svolte da organi specializzati singoli o doppi; si procurano energia dall’esterno ricorrendo al movimento. Le piante sono organismi sessili, e l’energia di cui hanno bisogno se la procurano autonomamente attraverso la fotosintesi, non hanno un centro di comando e le funzioni che svolgono sono diffuse. 

Se a un gruppo di persone mostriamo delle foto di una foresta, alcune che contengono foto di animali o uomini, altre senza, e poi chiediamo loro che cosa vedono, la quasi totalità di queste risponderà che alcune immagini, quelle che non contengono animali o uomini, non contengono nulla.
La spiegazione è che ci siamo evoluti in un ambiente, la foresta, che è per noi innocuo, quello di cui ci siamo dovuti preoccupare per migliaia di anni sono altri animali. Questi potevano rappresentare una fugace fonte di cibo, o un pericolo da individuare nello sterminato ambiente verde. 
Sul terreno di queste differenze e limitazioni ho iniziato la composizione della mia tesi.

La mia analisi è stata volta al modello vegetale, nel tentativo di una più autentica comprensione di questo.
Nel capitolo primo ho focalizzato il punto di partenza sulle prime testimonianze che hanno per oggetto il regno vegetale, contenute nel libro della Bibbia. Un breve sguardo sul panorama storico mi ha permesso di constatare che fino al 1800, e in particolare  fino alle opere di Charles Darwin, la nostra percezione del mondo vegetale non ha subito rivoluzionari cambiamenti.

Il capitolo secondo è dedicato all’esposizione delle differenze  fisiologiche e costruttive tra organismi viventi, tracciando ed evidenziando quelle caratteristiche che rendono piante e animali due modelli di vita totalmente diversi. La centralità delle funzioni vitali, il ricorso al movimento, e l’eterotrofismo; sono le caratteristiche che  contraddistinguono il regno animale. L’assenza di un centro di comando, le funzioni multicentriche, e l’autotrofismo sono i caratteri distintivi del regno vegetale. La comprensione di queste differenze è resa difficoltosa dal nostro stesso percorso evolutivo, che fa da  interferenza, impedendoci di cogliere pienamente il regno vegetale,  agendo su di noi come una forma di cecità nei confronti di esso.

Nel 2006 è nata la neurobiologia vegetale, volta a mostrare l’esistenza di una forma di intelligenza anche negli organismi vegetali. Alla luce di questa teoria, nel capitolo terzo, ho raccolto alcuni esperimenti che cercano di mostrare come le piante non siano organismi passivi, ma come si adattino  flessibilmente all’ambiente, interagendo con altri esseri viventi; animali compresi.

Il capitolo quarto riporta alcuni esempi di bioispirazione. Cioè di quell’approccio progettuale volto a migliorare le nostre tecnologie prendendo come modello la natura, e in questo caso il modello vegetale.
Se nel nostro percorso evolutivo il ricorso al movimento e alla fuga hanno rappresentato la nostra strategia ricorrente per risolvere i problemi; oggi prendere come prototipo per ispirare le nostre scelte progettuali e organizzative il modello vegetale può fornirci nuove possibilità per risolvere quei problemi che, ricorrendo alle nostre strategie prevalenti, non siamo stati in grado di risolvere.

CAPITOLO 1 - CONCEZIONE E PERCEZIONE DEL REGNO VEGETALE DALL’ANTICO TESTAMENTO A DARWIN

“Linneo e Cuvier sono stati in modo diverso le mie due divinità, ma essi non sono che scolaretti in confronto al vecchio Aristotele.”
Charles Darwin (1809-1882)

Se assumiamo come mito fondativo della cultura occidentale la Bibbia, possiamo trovare diversi punti in cui il regno vegetale, nella sua complessità e interezza, viene compreso interpretato e collocato negli eventi che hanno spiegato l’origine della nostra identità culturale.
Nel vecchio testamento l’insieme degli esseri vegetali è compreso come supporto sul quale è possibile la vita sul nostro pianeta, la sua comparsa è riportata come antecedente agli altri esseri viventi, ma non viene ancora percepito come un regno vivente.
Gli viene riconosciuta la non contingenza, ma lasciato in uno stato di subordinazione rispetto agli esseri viventi.

Leggendo la Genesi, e in particolare la creazione, possiamo tranquillamente interpretare la terra come un pianeta dalle caratteristiche peculiari, meno diretta è l’interpretazione che possiamo fare delle piante come matrice di questa specialità.
Se guardiamo la terra dalla luna, i colori blu, bianco, e verde che si vedono da 384.400 km di distanza sono il risultato della presenza vegetale sulla terra, che ammonta, per fare qualche dovuta proporzione col regno animale, al 98,5% (con stime che arrivano al 99.7%) della biomassa del pianeta. 
Tornando all’interpretazione della Bibbia, la creazione dei vegetali durante il terzo giorno segue al comando divino:“La terra faccia germogliare la verdura, le graminacee produttrici di semenza e gli alberi da frutto, che producano sulla terra un frutto contenente il proprio seme, ciascuno secondo la propria specie.”
Dio attribuisce al mondo vegetale subito una totale autonomia e indipendenza dal resto del creato.

“Abbiano in se la propria semenza: cioè il loro seme sia racchiuso nel loro stesso frutto, sicché mediante un frutto solo raggiungano due fini: nutrano e mantengano l’uomo, si  riproducano e conservino la loro specie.”
Che la creazione del III giorno abbia principalmente lo scopo di alimentare (e con esso tutte le funzioni congiunte: proteggere, curare, riscaldare ecc.) i prossimi venturi animali, e con esso anche l’uomo, è ribadita nella “Creazione dell’uomo”: “Ecco io vi do ogni sorta di graminacee produttrici di semenza, che sono sulla superficie di tutta la terra, e anche ogni sorta di alberi in cui vi sono frutti portatori di seme. Essi costituiranno il vostro nutrimento.”

All’uomo Dio comanda: “... abbiate dominio sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sul bestiame e su ogni essere  vivente...” non parla dei vegetali, forse viene già riconosciuto come un regno biologicamente più efficiente degli animali, dal quale possiamo trarre “nutrimento”, ma che non possiamo soggiogare.
Se la nostra lettura si dispone su un piano temporale, il fatto che i vegetali vengano creati il terzo giorno gli fa assumere un valore molto più grande, che non si limita a quelle funzioni dirette di cui il mondo animale beneficia. Segue alla riorganizzazione del caos primitivo, prima è stata creata la materia primordiale, poi riordinata e poi creato l’ornamento (ornamento è tanto fuori luogo quanto calzante, vedremo in seguito).

Non ha una comparsa casuale, nella cronaca della Genesi del pianeta e degli esseri viventi, il suo comparire è posto correttamente come condizione necessaria ma non sufficiente alla vita. 
L’uomo è messo da Dio nel duplice ruolo di dominatore dipendente, “Riempite la terra e soggiogatela […]” e ancora: “[…] affinché possa dominare sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra [...]” ma allo stesso tempo “essi costituiranno il vostro nutrimento” (riferito alle piante).

Pur non essendo possibile nessun riferimento alla produzione di ossigeno, e con esso alle condizioni atmosferiche dalle piante create, è chiara la dipendenza del mondo animale dal mondo vegetale, anche se questo non è ancora visto come dominio vivente.
Non è un caso che Dio dopo la creazione dell’uomo “... piantò un giardino in Eden a oriente ... e vi fece spuntare ogni sorta d’alberi, attraenti per la vista (ornamento) e buoni da mangiare e l’albero della vita nella parte più interna del giardino insieme all’albero del bene e del male.”
E’ ovvio che l’albero del bene e del male sia una prova a cui sottoporre l’uomo, ma perché viene scelto l’albero?
L’uomo non potendosi misurare con Dio, è chiamato a misurarsi con ciò da cui è “originato”, o meglio dal quale dipende la sua esistenza, tant’è che la prova non è nell’albero, ma nel frutto che è anche seme.
In questo caso l’albero ricorda all’uomo la sua contingenza: rappresenta la sua possibilità di esistere. 

Dopo la “vicenda del giardino dell’Eden” e la cacciata dell’uomo e della donna, Dio pose i Cherubini a protezione dell’albero della vita. Qui il messaggio appare chiaro: “Ecco che l’uomo è diventato uno come noi che conosce il bene e il male! E ora facciamo sì che egli non stenda la sua mano e non prenda anche l’albero della vita così che mangi e viva in eterno!” Usurpato l’albero del bene e del male, non avendo superato la prova, l’uomo è cacciato, e in questo modo diventa schiavo dei propri bisogni e delle proprie necessità.  
“Maledetto sia il suolo per causa tua, con affanno ne troverai nutrimento […] mentre tu dovrai mangiare le erbe della campagna finché tornerai alla terra, moltiplicherò le tue sofferenze e le tue gravidanze, con doglie dovrai partorire […]”.
Solo adesso l’uomo è collocato nel creato nella sua posizione più vera, di dominatore, conoscendo il bene e il male, al prezzo di sofferenze e affanno, al pari di tutti gli altri esseri animali, “soggiogando la terra” rimane dipendente dal regno vegetale e dominato da Dio.
Uomo: conoscitore del bene e del male oltre il disegno divino, ma impossibilitato a diventare immortale, più di un animale, meno di una divinità.

Cacciati dall’Eden Adamo ed Eva avranno due figli, Caino, il primogenito “coltivatore del suolo”, e Abele pastore di greggi. “Or, dopo un certo tempo, Caino offrì dei frutti del suolo in sacrificio al Signore; e anche Abele offrì dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso. Il signore gradì Abele e la sua  offerta, ma non gradì Caino e l’offerta di lui.” Non c’è sacrificio senza vita! E i frutti del suolo non sono vivi, il sacrificio di Caino è agli occhi di Dio un oltraggio frutto di presunzione.

Il racconto del diluvio universale sembra ancora una volta non dare al mondo vegetale il ruolo che gli spetta, in quanto non lo considera un dominio vivente, infatti a Noè viene chiesto di salvare una coppia (in alcune versioni le coppie sono sette ad eccezione dell’animale impuro) di ogni specie vivente, ma non menziona le piante. Ma quello che accade nell’ultima fase del racconto ci permette di interpretare e attribuire alle piante un ruolo importantissimo.
“Il 17 del mese l’arca si fermò sui monti dell’Ararat ... Noè rilasciò la colomba fuori dall’arca e la colomba ritornò a lui sul far della sera; ed ecco essa aveva una foglia di ulivo che aveva strappato con il suo becco; così Noè comprese che le acque erano scemate sopra la terra ...
Il primo messaggio è chiaro, non è importante sapere che le acque si siano ritirate, ma che il regno vegetale si sia salvato. Condizione necessaria, e in questo caso sufficiente perché possa continuare la vita animale sulla terra.

Altro messaggio, meno esplicito, e per questo ancora più potente, è che il regno vegetale si salva da solo, non ha bisogno dell’uomo per sottrarlo alla furia divina.
Oggi sappiamo che la biomassa terrestre è composta per il 99% circa da vegetali, gli animali rappresentano lo 0.1 0.5 e l’uomo è quasi irrilevabile. Alla luce di questi dati acquista un nuovo valore anche questo racconto della “Genesi”.
Appare chiaro che il mondo vegetale è molto più adatto alla sopravvivenza sul pianeta terra, rispetto agli animali, questo era già intuito dagli autori dell’Antico Testamento.  
Il primo filosofo a compiere una classificazione naturale è stato Aristotele, gettando le basi per quella che sarà la moderna tassonomia.

Aristotele ha iniziato la sua opera di classificazione operando su scala gerarchica, dividendo le cose naturali tra viventi e non viventi.
La divisione delle cose viventi è operata tra piante e animali.
Gli animali sono poi divisi in base alle qualità universali che ci mostrano le differenze tra loro. Vola? Ha piume? Ha scaglie?
Giunti nel 1500 la considerazione del mondo vegetale non ha subito rivoluzionari cambiamenti, nel “Liber de Sapiente” del 1509 di Charles de Bovelles (1479-1567) viene raffigurata la scala gerarchica degli esseri viventi sulla terra.
Alla base della piramide ci sono le rocce, alle quale viene dato l’attributo EST, salendo verso il vertice ci sono le piante: EST e VIVIT. Poi gli animali, EST VIVIT e SENTIT, e infine l’uomo: EST, VIVIT, SENTIT, INTELLIGIT.
L’uomo, fine ultimo di tutto il creato, domina sugli altri esseri viventi, i quali poggiano sulla base della piramide che funge da crosta a supporto di tutte le creature viventi. Possiamo vedere in questo semplice schema tassonomico il sunto dei sette giorni della Creazione.

Alle piante non viene ancora riconosciuta la sensibilità, la caratteristica di percepire gli stimoli ambientali; questa mancanza “dell’uomo misura di tutte le cose” è dovuta alla incolmabile differenza che l’evoluzione ha posto tra noi e i vegetali.
Il primo classificatore in senso moderno è Carl Nilsson Linneaus (1707- 1778).
Linneo utilizzò l’organo riproduttore e il sistema sessuale delle piante come metodo di classificazione, idea rivoluzionaria, ma che portò scompiglio tra gli scienziati del tempo.
Bisognerà attendere gli studi di Charles Darwin con l’origine della specie per ammettere, che le piante sono creature estremamente sofisticate e complesse, con capacità molto al di sopra di quelle che la comunità scientifica dell’epoca credeva. Johann George Siegesbeck (1686-1755) docente di botanica all’accademia russa delle scienze e direttore del giardino di medicina di Pietroburgo fu uno dei più agguerriti avversatori della classificazione linneana basata sulla morfologia degli organi riproduttivi. Siegesbeck riteneva immorale immaginare organi sessuali esposti, come lo sono i pistilli (organi sessuali femminili) e gli stami (organi sessuali maschili) all’interno dei fiori.
Nel libro “The power of moviment in the plants” 1880 Darwin afferma che esiste nelle piante, in particolare nelle radici, qualcosa di molto simile al cervello di un animale inferiore. 

CAPITOLO 2 - PIANTE ED ANIMALI: ANALOGIE E DIFFERENZE

“L’intelligenza di un uomo è, ovviamente, molto superiore a quella di un batterio o di un’alga unicellulare ma la differenza è solo quantitativa e non qualitativa”. 
Stefano Mancuso

Nel capitolo precedente abbiamo visto quale era la concezione del mondo vegetale, e come veniva percepito dagli autori dei testi antichi e dagli uomini di scienza fino a Darwin.
Abbiamo visto che l’uomo, pur riconoscendo il regno vegetale come un regno necessario alla vita, non lo ha pienamente percepito come un regno vivente, e se lo ha fatto non gli ha attribuito quelle facoltà che normalmente sono connaturate alla vita. 
In questo capitolo cercherò di spiegare quali sono le differenze costruttive che ci impediscono di comprendere le piante come autentici esseri viventi.  
Il nostro percorso evolutivo, ci ha portati a sviluppare alcune caratteristiche che hanno amplificato le difficoltà per una autentica comprensione delle piante, fino a farla diventare, secondo alcuni autori, una forma di cecità. 
Comprendere correttamente il mondo vegetale ci permetterebbe di condividere con esso, e poter beneficiare, di alcune strategie di sopravvivenza che lo hanno fatto diventare il regno vivente dominante (da un punto di vista biologico) sulla terra.   Per comprenderlo pienamente, la nostra posizione antropocentrica deve fare un passo indietro, dobbiamo riconoscere che se l’evoluzione seleziona il più adatto alla vita, l’uomo con il suo 0,1 - 0,5 % di presenza sulla terra non è l’animale terrestre che ha sviluppato le strategie più raffinate.
Se nel 1880 Charles Darwin afferma che nelle radici delle piante esiste un qualcosa di simile al cervello di un animale inferiore, oggi possiamo ammettere che le piante sono organismi intelligenti.  
Riconoscere questo non toglierebbe all’uomo niente di tutto ciò che è riuscito a conquistare nel lungo percorso della sua civiltà, ma aggiungerebbe nuove frontiere per trovare soluzioni e continuare ad affrontare i problemi che, indissolubilmente connaturati alla vita, quotidianamente si presentano. 
Riconoscersi esseri viventi tra gli esseri viventi non toglierebbe niente all’uomo, ma ricollocherebbe il nostro sguardo all’interno di una visione più vera e autentica del creato (come insieme degli esseri viventi e non viventi) migliorando la qualità delle nostre scelte.

Differenze costruttive: centralità e comando, modularità e diffusione

“Relativamente agli animali, nella stragrande maggioranza dei casi dividere significa distruggere; relativamente ai vegetali, dividere è moltiplicare.” 
Jean Henri Fabre (1823-1915)

Circa 500 milioni di anni fa alcuni esseri viventi optarono per uno stile di vita stanziale, mentre altri per uno nomade. 
Da questo bivio evolutivo ad oggi, piante e animali hanno sviluppato caratteristiche opposte: le piante sono autotrofe (dal greco autòs=da sé e trophè=cibo) e sessili, mentre gli animali sono eterotrofi (dal greco eteros=altro e trophè=cibo) e hanno incentrato la propria evoluzione sul movimento e le capacità ad esso connesso.

Autotrofi sono tutti quegli organismi in grado di produrre il materiale di cui sono composti, a partire da sostanze inorganiche, utilizzando come fonte energetica una sorgente diversa da quella delle sostanze assorbite.
Eterotrofi si dicono gli organismi viventi che devono nutrirsi di altri organismi per ottenere le sostanze organiche di cui necessitano perché incapaci di fabbricarsele.
Pensiamo a un leone e una gazzella, e al gran numero di abilità che l’evoluzione ha dovuto migliorare per renderli efficienti ed efficaci dal punto di vista energetico. Le caratteristiche e capacità che gli animali hanno dovuto evolvere sono: movimento, corsa, agilità, velocità, fuga ecc.
Piante e animali si sono evolute in maniera tanto diversa e hanno sviluppato caratteristiche tanto distinte, da rendere inutile qualunque paragone.
L’uomo, per sua natura, tende ad “antropomorfizzare” tutto, caratteristiche fisiche, fisiologia e molto altro, producendo come risultato una ancor più marcata incomprensione di ciò che sono davvero le piante. 
“Noi riproduciamo noi stessi” non solo da un punto di vista fisico, ma anche concettuale.

Ad esempio se costruiamo un computer, lo pensiamo con una CPU, un cervello, una RAM, una memoria a breve termine, UNITA’ DI INPUT E OUTPUT che svolgono le funzioni dei nostri sensi, e molti altri organi singoli e centralizzati.
Queste funzioni centralizzate hanno l’indubbio svantaggio che, una volta danneggiato l’organo preposto a tale scopo, perde efficacia tutto il sistema.
Le piante non sono in grado di spostarsi, ma sono in grado di muoversi; questo ha fatto sì che si evolvessero, per resistere alle predazioni degli erbivori, sviluppando una struttura modulare.
La chiave che gli permette di resistere alle predazioni è la “non centralità”.

Noi siamo animali individui, animati e indivisibili.  Abbiamo organi singoli o doppi la cui funzione è concentrata nei soli tessuti dedicati a tale scopo, quindi se viene a mancare l’organo, interrompiamo la funzione.
Ad esempio se ci viene a mancare il cuore, cessa la funzione di trasporto del sangue e a cascata tutti gli altri organi smetteranno di espletare la loro funzione.
Le piante non hanno funzioni centralizzate, hanno funzioni diffuse o microlocalizzate. La fotosintesi, per esempio, è opera dell’intera parete fogliare, non ha un punto debole. Se una pianta perde una foglia, un ramo, o un’intera branca, il resto della chioma continua ad assolvere la funzione. Grazie all’energia di riserva, immagazzinata in maniera modulare, in modo che sia fruibile sempre e velocemente, può ripristinare la fotosintesi anche in seguito a una predazione massiva o a un evento calamitoso.
Ci sono casi in cui le piante possono essere asportate fino al 90% potendo ristabilire la propria struttura modulare con tutte le sue funzioni (esempi sono la talea e la ceduazione).
Le piante sono costituite da moduli reiterati: il fusto, le branche principali e secondarie, i rami, le foglie e le radici: sono combinazioni di moduli più semplici diversi da genere a genere e da specie a specie.
Se a un individuo viene asportato un arto questo non ricresce, se viene asportato un organo vitale addirittura muore; cosa che non succede con una pianta, perché la pianta non è un individuo. 
Se volessimo fare un paragone, tra una pianta e un altro essere vivente, è molto più giusto paragonarla a un formicaio o a uno sciame di api che a un individuo singolo.
Come il formicaio o lo sciame di api, la pianta ha comportamenti che emergono dall’essere una colonia. Il comportamento di una pianta non è frutto di una decisione centralizzata ma di un’intelligenza di sciame. 
Noi animali abbiamo un indubitabile rapporto di dipendenza con il regno vegetale, eppure non riusciamo a comprenderlo veramente.

Piante e animali sono su due piani temporali diversi, noi abbiamo una vita media, un’obsolescenza programmata delle cellule che ci impedisce di vivere oltre un certo limite. Le piante non riparano le cellule danneggiate, ma possono generare cellule nuove, questo gli permette di non avere un’aspettativa di vita. Grazie a peculiari caratteristiche genetiche e riproduttive, alla giovinezza del genoma, e una struttura coloniaria, le piante possono vivere per secoli, millenni e tendere ad una potenziale immortalità, finché un evento esterno non sopraggiunge.  
Gli alberi possono vivere molto a lungo; i Pinus longeva superano tranquillamente i 5.000 anni, ne sono un esempio il Matusalemme nella contea di Inyo in California, e Prometeo nel Nevada tagliato nel 1964 a 4.844 anni.
In Svezia vive un Picea abies, denominato Old Tjikko, scoperto nel 2008 da Leif Kullman, professore all’Università di Ulmeå ,che con i suoi 9.550 anni è da ritenersi il decano della terra; ed ha visto svilupparsi l’intera civiltà umana che viene fatta risalire a 10.000 anni fa con la nascita dell’agricoltura.
Le colonie clonali possono affrancarsi dal concetto di morte come la intendiamo noi che siamo individui, diventando delle vere e proprie identità vegetali, in cui il concetto di pianta singola sparisce a fronte di più organismi interconnessi. Nello Utah vive una colonia clonale di 47.000 Popuulus tremuloides, che occupa una superficie di 43 ha, con età stimata di oltre 80.000 anni. E’ stata battezzata “Pando” (dal verbo latino espandersi visto la superficie occupata) ed è un essere vivente composta da un unico individuo genetico che ha visto apparire i primi uomini di Neanderthal, ha visto l’estinzione dell’Homo erectus e la comparsa dell’Homo sapiens. 

Alla base della differenza tra animali e piante c’è una sottile parete che circonda la cellula e permette la fotosintesi: il cloroplasto.
Grazie al processo della fotosintesi le piante sono il tramite fra l’energia del sole e la terra. Trasformano l’energia solare in energia chimica (zuccheri) permettendoci di vivere e moltiplicarci.
Tutto ciò che noi consumiamo è passato dalle piante; che ci cibiamo di pesce, carne, vegetali o che bruciamo combustibili fossili.
Le piante producono zuccheri (molecole ad alto contenuto energetico), trasformando l’ anidride carbonica (CO2) contenuta nell’atmosfera tramite i raggi solari, producendo come scarto l’ossigeno (O2) e fissano il Carbonio (C). Tutta l’energia che consumiamo: legna, carbone o petrolio che sia, è stata trasformata dalle piante. 

Per noi le piante non devono risolvere gli stessi problemi del leone e della gazzella, ma non è così: tutti devo sopravvivere, tutti hanno un problema di bilancio energetico da risolvere.
Il problema che accomuna tutti gli esseri viventi è il “problema Energia”. Come essi se la procurano è oggetto di suddivisioni e classificazioni.
L’antropomorfismo è il nostro principale difetto: consideriamo le piante prendendo come riferimento noi stessi, il nostro sguardo è mediato da un filtro animale.
Le piante a differenza degli animali hanno conquistato l’autotrofismo, nel momento in cui alcune cellule hanno captato dei batteri fotosintetici che si sono poi trasformati in cloroplasti.
Le cellule che hanno continuato a divorare tali batteri, piuttosto che stabilire un legame simbiotico con essi, sono rimaste eterotrofe.
Gli esseri eterotrofi dipendono da altri esseri viventi, quelli autotrofi solo da elementi minerali, più facili da reperire e praticamente inesauribili.
Prodotto di scarto dell’attività fotosintetica sono gli zuccheri, che organizzati intorno alla cellula gli conferiscono rigidità.

L’enorme resistenza meccanica, dovuta alla rigidità cellulare, permette alle piante di raggiungere grandi dimensioni, a scapito della mobilità.
Il ciclo alimentare degli animali non prevede la produzione di energia, ma il suo consumo nella sola direzione del movimento. Le piante hanno sviluppato un sistema originale di doppia circolazione; assorbono acqua e sali minerali dal suolo ad una estremità e fabbricano zucchero all’altra, in chioma (Bipolarità).
Mentre gli animali per proteggersi hanno sviluppato sostanzialmente l’interiorizzazione delle superfici di scambio e il ricorso al moto, le piante che non si possono spostare si sono orientate nella direzione opposta, esteriorizzando le superfici di scambio e sensibilizzando la misurazione delle variazioni ambientali.
La valutazione estremamente raffinata dei parametri ambientali, unito alla sottomissione della propria biologia alle variazioni di essi, hanno fatto sì che la pianta possa modificare la propria modalità di crescita anticipando le condizioni sfavorevoli.
Come abbiamo già visto, gli animali hanno organi molto diversificati, mentre le piante ne hanno solo tre tipi: fusto, radici, e foglie, ma moltiplicati nel numero, così da rendere la funzione multicentrica.
L’orientamento della morfogenesi   da un numero determinato ad un numero indeterminato di organi, ha luogo a partire dal seme. I geni entrano in funzione per definire i meristemi, aree in cui viene preservato lo stato embrionale delle cellule.
I meristemi,  preposti alla costruzione vegetativa della pianta, la pongono in una categoria ontogenetica  diversa da quella degli animali. Nelle piante permangono cellule embrionali fino alla morte, cellule che negli animali scompaiono rapidamente, per riapparire con la maturità sessuale, localizzate nei tessuti riproduttivi.
La configurazione assunta dalla pianta nello spazio e nel tempo è frutto della gerarchizzazione dei moduli.

Al contrario degli animali, i vegetali non hanno una crescita determinata, esistono delle costanti di ramificazione, ma non si può conoscere la forma anticipatamente, non esiste una forma definitiva. La forma è un qualcosa a cui tende senza raggiungerla mai.
Ci sono tre elementi che si possono definire costanti.
Una costante architettonica condizionata dalla specie e dalle condizioni ambientali: è il modello che la pianta segue reiterando le proprie strutture.
Una costante morfosiologica legata all’ambiente e alla successione delle condizioni ambientali cui è stata sottoposta la pianta. Ad esempio un albero giovane reprime una gran quantità di assi secondari in favore della crescita in altezza. Le fasi successive vedranno una diminuzione delle selezioni favorendo lo sviluppo in tutte le direzioni. Nelle fasi avanzate, la pianta ridurrà progressivamente le proprie dimensioni  e i meristemi, capaci di generare organi e tessuti giovani, possono organizzare un nuovo ciclo vitale ( fasi Reimbault ).
Una costante matematica di dimensioni e di forma. Nella crescita la pianta obbedisce a dei rapporti lunghezza e numero di ramificazioni.
Una caratteristica fondamentale delle strutture frattali  è l’autosomiglianza.

Ovvero le strutture delle ramificazioni sono identiche. La foglia di un albero adulto è delle stesse dimensioni di quella di un albero giovane. Mentre l’occhio e la bocca di una balena sono proporzionali alle sue dimensioni.
Negli animali, il tempo cronologico, l’età ontogenetica e l’invecchiamento sono fattori strettamente collegati fra loro, nelle piante sono fattori totalmente dissociati (può morire  
di vecchiaia una pianticella di pochi cm e viceversa). Alla radice di tale autonomia c’è la natura embrionale dei meristemi caulescenti e la loro stimolazione ormonale proveniente dall’apparato radicale.
Negli animali le cellule che compongono i tessuti sono sostituite continuamente, ma il processo avviene per un numero definito di cicli dopo di che le cellule non vengono più rinnovate e l’individuo muore.
Nelle piante le cellule non vengono sostituite, le nuove cellule sono generate da un tessuto meristematico dedicato, il cambio, che costituisce un nuovo strato di cellule all’esterno di quelle vecchie. Grazie all’operato del cambio la pianta è una sequenza di contenitori il cui strato più esterno è formato da cellule vive. Le cellule morte, ad eccezione delle foglie che cadono, non vengono riassorbite dall’organismo, come nel caso degli animali, ma rimangono all’interno dell’organismo per assolvere a molte funzioni: resistenza meccanica e difesa chimica, essendo impregnata di sostanze organiche tossiche per insetti e funghi.
I vegetali non sostituiscono tessuti morti, al contrario di quanto accade negli animali, ma ricoprono i tessuti morti con nuovi tessuti, lasciando alle cellule morte il compito di difenderlo col suo armamentario chimico. 
Le esigenze di piante ed animali non sono poi diverse. Cibo, acqua, dimora, compagnia, difesa, riproduzione, non sono forse i nostri stessi problemi? Quello che cambia radicalmente è il modo in cui li risolviamo.

Evoluzione e plant blindness

“Vogliamo conoscere la nostra antica natura.” 
Platone

L’uomo si è evoluto in mezzo alle piante. L’inurbamento, che ha allontanato l’uomo dal suo ecosistema naturale, in termini evoluzionistici è avvenuto recentissimamente.
L’uomo, nel corso della sua evoluzione, ha dovuto concentrare la propria attenzione sugli altri esseri viventi. Questi potevano rappresentare sia un pericolo per la propria vita, che una risorsa alimentare.
Il cervello umano riceve informazioni visive per circa 10 milioni di bits, mentre è in grado di elaborarne solo 40; di questi solo 16 bits rappresentano informazioni coscienti.
Questa che può apparire una limitazione, è frutto di una evoluzione che ha visto l’uomo sopravvivere, in un luogo come la foresta, in cui le piante rappresentano un elemento innocuo, invece la presenza di un animale, cioè di un essere animato, può costituire una fonte di cibo o un estremo pericolo.
Questa incapacità dell’uomo di vedere le piante nell’ambiente circostante è stata chiamata nel 1998 plant blindeness da James Wandersee dell’università statale della Louisiana di Baton Rouge e di Elizabeth Schussler del Ruth Patrick Science Education Center di Aiken che per anni hanno condotto approfondite ricerche. 

Intelligenza vegetale

“[...]il comportamento intelligente è un complesso fenomeno adattativo che si è evoluto per consentire agli organismi di far fronte a condizioni ambientali variabili. Massimizzare il proprio benessere richiede abilità nel reperire le risorse necessarie (cibo) in situazioni di concorrenza ed è probabilmente l’attività nella quale il comportamento intelligente è più facilmente visibile. I biologi suggeriscono che l’intelligenza comprenda una dettagliata percezione sensoriale, una capacità di elaborare informazioni, l’apprendimento, la memoria, la scelta, l’ottimizzazione nel reperire risorse con il minimo dispendio, l’auto riconoscimento e la capacità di risolvere problemi in situazioni ricorrenti e nuove…”
Stefano Mancuso

Anche se le scoperte lo avevano condotto alla conclusione che le piante avessero una forma di intelligenza, Charles Darwin non dichiarò mai che le piante fossero “esseri intelligenti”, consapevole del fatto che tale affermazione avrebbe avuto grandi ripercussioni sul mondo accademico dell’epoca.
Il 2 settembre 1908, Francis Darwin, al congresso annuale della British Association for the advancement of Science, con formidabile coraggio dichiarò: “Le piante sono esseri intelligenti”.  Dichiarazione che tutt’oggi non è digerita da tutto il mondo scientifico e men che mai dal senso comune.
In termini evoluzionistici possiamo dire che l’intelligenza è connaturata alla vita. Se non lo ammettiamo, facciamo dell’intelligenza un parametro non oggettivo ma influenzato dalla cultura. Nell’800 pochi, solo i ricercatori dell’epoca, avrebbero ammesso che una scimmia o un pesce fossero intelligenti. Oggi in ambito scientifico parliamo di intelligenza batterica.
Una pianta registra un grande numero di dati: parametri ambientali (luce, umidità,
elementi chimici ecc.), presenza di predatori, gravità ecc. e tramite l’elaborazione di questi dati decide come agire per alimentarsi, difendersi, orientarsi ecc. Come sono possibili queste funzioni senza l’intelligenza?
Nel capitolo finale di “The power of moviment in plants” Charles Darwin afferma: “Non è un’esagerazione dire che la punta della radice, così dotata di “sensitività” e che ha il potere di dirigere il movimento delle regioni adiacenti, agisce come il cervello essendo situato nella parte anteriore del corpo riceve impressioni dagli organi di senso e dirige i diversi movimenti”. Le radici registrano le percezioni degli stimoli ambientali ed elaborando questi dati, prendono le decisioni sulla direzione da prendere ecc.

“Crediamo che non ci sia altra struttura nella pianta più meravigliosa, per quanto riguarda le sue funzioni, che l’apice radicale. Se la punta è leggermente pressata o bruciata o tagliata, essa trasmette un’influenza alle parti adiacenti superiori, provocando con la curvatura il loro allontanamento dal sito colpito. […] Se l’apice percepisce che l’umidità dell’aria è superiore su un lato che sull’altro, esso trasmette un’influenza sulle parti adiacenti, che piegano verso la fonte dell’umidità. Quando la luce eccita l’apice radicale […] le parti adiacenti si allontanano dalla luce, ma quando sono sollecitate dalla gravità, le stesse parti piegano verso il centro di gravità”.
Per Darwin non esiste una differenza sostanziale tra il cervello di un lombrico e la punta di una radice. Oggi sappiamo che il metodo con cui la radice esplora il terreno, almeno da un punto di vista meccanico, è similare a quello di un lombrico, e dopo gli studi di Charles Darwin, esiste una teoria che si chiama The root brain hypotesis.
Per noi animali il cervello è realmente il centro dell’intelligenza, senza di esso non potremo essere intelligenti. Ma senza la sensibilità come potrebbe avvenire una risposta intelligente? Senza un INPUT, come potrebbe essere elaborato e poi restituito l’OUTPUT intelligente?
Quindi intelligenza e sensi devono essere collegati anche negli animali che hanno funzioni centralizzate e distinte.
Nelle piante le funzioni cerebrali non sono separate da quelle corporee, ma copresenti in ogni singola cellula. Un esempio di “Embodied Agent” ovvero un agente intelligente che agisce e interagisce attraverso il proprio corpo.
Abbiamo detto che le radici assolvono a tantissimi compiti, e svolgono moltissime valutazioni contemporaneamente. Devono percepire la gravità per orientarsi correttamente sul e nel terreno, captare l’acqua, assorbire ossigeno e microelementi.
Ogni vegetale possiede diversi milioni di apici radicali, che captano diversi stimoli, dalle sollecitazioni meccaniche del vento sulla chioma, all’ossigeno, l’acqua, la consistenza del terreno. Come è possibile che si coordino creando un apparato radicale omogeneo anche in ambienti che omogenei non sono? La spiegazione è che le radici sono in rete e che sono in grado di coordinarsi.
I singoli apici radicali sono nodi connessi a una singola rete collettiva. Internet è la rete modulare più simile a una pianta che l’uomo abbia mai creato.
ARPANET progettato dal DARPA (Defence Advanced Research Projects Agency) aveva lo scopo di resistere ad un attacco nucleare. La struttura modulare della rete garantiva il funzionamento anche nel caso che molti dei singoli computer fossero danneggiati. Anche se  l’organizzazione interna di ARPANET non era ispirata direttamente al  modello vegetale,  è la stessa tecnica costruttiva adottata dalle piante.

Ma come fanno le radici a lavorare insieme e coordinarsi?
Ovviamente sono anatomicamente collegate, ma non è dal collegamento anatomico che passano le informazioni.
Come abbiamo detto l’apparato radicale si comporta come uno sciame o come un formicaio, la capacità di calcolo e elaborazione di un singolo apice è minima, come lo è quella di una singola formica, ma il comportamento del formicaio è sorprendente. Eppure le formiche non sono collegate tra loro, ma comunicano, ed è così che sembra che interagiscono anche gli apici radicali, captando e elaborando non solo le informazioni contenute nel terreno, ma anche quelle emesse dalle altre radici. Secondo studi recentissimi ogni radice emette dei click, segnale parsimonioso non volutamente emesso dalla pianta, ma da essa utilizzato, prodotto dalla rottura delle cellule e dei tessuti, poi percepiti dalle radici vicine. Il Click  raggiunge il suo scopo senza spendere l’energia necessaria a produrlo .
Ogni apice si manterrebbe alla stessa distanza dagli apici vicini proprio come negli stormi i volatili si mantengono alla stessa distanza tra di loro.
Se volessimo attribuire un aggettivo all’intelligenza vegetale potremmo dire che è un’intelligenza distribuita, come sostiene Stefano Mancuso: “Ogni pianta da sola è uno sciame”. 
Anche gli esseri umani quando si trovano in gruppo attivano dei comportamenti emergenti ad esempio: l’applauso di migliaia di persone inizialmente asincrono e in seguito armonizzato.
Come abbiamo già detto nelle piante nessuna singola parte è essenziale, anzi la struttura è ridondante e costituita da moduli ripetuti che interagiscono tra loro e che possono, in certi casi, sopravvivere in modo autonomo. Queste caratteristiche rendono le piante molto differenti dagli animali e più simili a una colonia che a un individuo.
Forse è proprio questa distanza, questo modo così diverso di essere vivi, che ci impedisce di vedere le piante come esseri viventi.

Non avendo i nostri organi, ci sembra che non espletino le nostre funzioni.
Invece riescono a svolgere tutte le funzioni vitali, nutrimento, respirazione, riproduzione, ecc, ma ammettere che possano pensare senza cervello esula dal senso comune.
Non è la prima volta, nell’arco della storia, che l’uomo ha dovuto fare un passo indietro nella considerazione della propria posizione sul Pianeta Terra.
L’essere intelligenti ci accomuna a tutte le altre specie viventi che, come noi, sono capaci e abili a risolvere problemi.
Abbiamo da tempo riconosciuto l’intelligenza degli altri animali perché sono in grado di procurarsi cibo, utilizzare attrezzi, hanno elaborato un linguaggio ecc.; tutto ciò per risolvere problemi.
Le piante svolgono gli stessi compiti: si difendano dai predatori, con strategie tanto complesse che spesso utilizzano altre specie, le quali rimangono ignare del compito che svolgono (es. la mirmecofilia). Per riprodursi utilizzano animali (impollinazione entomofila), cacciano animali (Dionea muscipola), li seducono (Ophrys apifera), si procurano cibo, acqua, luce, ecc. Eppure ci risulta molto difficile ammettere che sono esseri viventi intelligenti, e quando lo facciamo gli attribuiamo un’intelligenza di seconda categoria, filtrata dal nostro giudizio. Un’intelligenza stabilita e attribuita piuttosto che pienamente riconosciuta.
Se le piante sono il 99,5 99.7 % della biomassa vuol dire che il problema della sopravvivenza l’ hanno risolto meglio di noi. In termini evoluzionistici sono più adatte a sopravvivere. 
Come è possibile che un “ornamento della terra” abbia raggiunto numeri da record?  Il regno vegetale ha conquistato maggiore spazio a discapito delle altre specie perché è maggiormente adattabile, ossia possiede una maggiore capacità di risolvere problemi.

Fotosintesi: un modello energetico per il futuro

“Prima abbiamo dovuto abbandonare il sistema geocentrico, riconoscendo di vivere su un pianeta del tutto insignificante di una galassia marginale dell’Universo; poi abbiamo dovuto riconoscere la nostra somiglianza con altri animali e addirittura la nostra origine da alcuni di essi.” 
Stefano Mancuso.

Noi dobbiamo la nostra presenza sul pianeta al mondo vegetale, questo da un punto di vista energetico si è evoluto in direzione opposta degli animali. Ha scelto come fonte energetica l’energia solare, illimitata, e da questa ha ricavato come prodotto di scarto l’ossigeno indispensabile per la vita animale. Tenere presente la nostra contingenza dovrebbe farci progettare il nostro futuro in funzione delle piante, non per le piante. Prendendo come modello il mondo vegetale e la loro importanza nella biosfera terrestre ( quelli non necessari sulla terra siamo noi ), significa migliorare  la nostra visione delle cose e con essa, si spera, il nostro futuro. 
La clorofilla è l’essenza del mondo vegetale, è il carattere distintivo che divide i vegetali dagli animali e che li rende l’opposto in termini energetici; è la molecola che rende il pianeta Terra un pianeta abitabile (almeno per noi). Il botanico russo del XX sec. Kliment Timiryazev, definì i cloroplasti (organuli cellulari che contengono la clorofilla ) “ l’anello che lega la Terra al Sole”. 
Nel 1772 Joseph Priestley (scopritore dell’ossigeno), scrive: “le piante, invece di rovinare l’aria come la respirazione animale, invertono l’effetto della respirazione e tendono a mantenere l’atmosfera dolce e sana quando diventerebbe, invece, nociva in conseguenza degli animali, siano essi vivi e respiranti o morti e in via di decomposizione”.

La domanda che si imponeva agli scienziati dell’epoca era: come mai l’aria del pianeta rimaneva pura nonostante i milioni di anni di respirazione da parte di animali e uomo?
Gli esperimenti di Priestley, con solo due semplicissimi strumenti: topi e candele riuscirono a dare una risposta. Lo scienziato si accorse che le candele in aria “putrida” (senza la presenza delle piante) si spegnevano e i topi morivano per mancanza di ossigeno (aria deflogisticata). 
Quando la Royal Society, nel 1773 conferì a Priesley la medaglia “Copley”, la citazione del premio recitava: “Siamo certi che nessuna pianta cresce invano, ma che dalla quercia della foresta all’erba dei campi, ogni singola pianta è utile all’umanità; se non per qualche virtù privata, almeno per essere parte del tutto che purifica la nostra atmosfera”.

Priestley scopre che le piante producono ossigeno, ma non ha ancora compreso il ruolo svolto dalla luce. 
Nel 1779 il medico olandese Jan Ingenhousz (medico presso la corte di Maria Teresa a Vienna), studia gli esperimenti di Priesley e li replica per approfondirli e ampliarli.
“ Ho osservato che le piante, non solo hanno la facoltà di correggere l’aria cattiva in sei o dieci giorni […] come gli esperimenti del Dr. Priesley indicano, ma che essi svolgono questo importante ufficio in maniera completa in poche ore […] che questa meravigliosa operazione non è dovuta alla vegetazione in sé, ma all’influenza della luce del sole sulla pianta, e lungi dall’essere esercitata costantemente, inizia solo dopo che il sole ha da tempo fatto la sua comparsa sopra l’orizzonte, […] è più o meno vivace in proporzione alla chiarezza del giorno, […] diminuisce verso la fine della giornata e cessa completamente al tramonto […] che questo ufficio non viene eseguito dalle piante intere, ma solo da foglie e steli verdi che li supportano”. Questa è la prima evidenza sperimentale del ruolo della luce nella “purificazione dell’aria cattiva o deflogisticata”. 
Qualche anno dopo questa funzione verrà descritta più correttamente come trasformazione dell’anidride carbonica in ossigeno. 
Alla sua nascita l’atmosfera del nostro pianeta era ricca di anidride carbonica e praticamente priva di ossigeno. Il processo che ha permesso la vita sulla Terra, è iniziato miliardi di anni fa con la produzione di ossigeno da parte dei primi organismi acquatici fotosintetici. Arricchendo l’atmosfera con il 21% di ossigeno la vita ha colonizzato le terre emerse.

Conclusioni

Se la percezione costruttiva del mondo vegetale è sempre stata resa difficoltosa da alcune caratteristiche evolutive, poter riconoscere quelli che sono i comportamenti svolti dalle piante richiede uno sforzo maggiore.  
Il mondo scientifico da Darwin in poi ha rivolto maggior attenzione a quelli che oggi si possono definire comportamenti nei vegetali. Ma solo recentissimamente l’attenzione di alcuni scienziati è stata rivolta a studiare gli organismi vegetali sotto un’ottica più ampia e globale, considerandoli esseri viventi, e studiandone l’interazione con gli altri esseri viventi.

CAPITOLO 3 - INTELLIGENZA VEGETALE: ESPERIMENTI SCIENTIFICI E SENSO COMUNE

“Niente in biologia ha significato se non alla luce dell’evoluzione”. 
Theodosius Dobzhansky (1900-1975)

Abbiamo visto che le piante si sono evolute diventando l’opposto degli animali. Gli animali si spostano e le piante sono organismi sessili, gli animali sono veloci e le piante lente, gli animali consumano energia e le piante generano energia, le piante nutrono gli animali, gli animali sono nutriti dalle piante, gli animali producono anidride carbonica (CO2 , le piante fissano l’anidride carbonica (CO2  , gli animali centralizzano mentre le piante diffondono. Gli animali, per risolvere i loro problemi, ricorrono al movimento.
La natura sessile dei vegetali, ha fatto si che per resistere alle predazioni sviluppassero una struttura modulare e le sue funzioni non fossero centralizzate, ma diffuse.
Abbiamo visto che anche le piante, per adattarsi, sopravvivere e massimizzare il benessere, manifestano un comportamento che possiamo definire intelligente.
Memoria e intelligenza non si possono disgiungere, noi possiamo utilizzare la nostra intelligenza, grazie al supporto della memoria, possiamo risolvere i problemi solo se abbiamo ricordo delle circostanze in cui si verificano. Cartesio nell’esempio della cera spiega che riconosciamo la cera fusa solo col ricordo della cera solida. La memoria è alla base dell’apprendimento che si basa sull’esperienza.
Essere organismi intelligenti significa che quando siamo sottoposti ad uno stimolo ripetuto, miglioriamo la nostra reazione ad esso. In questo processo entrano in gioco: sensibilità, esperienza e memoria.
Anche le piante rispondono in maniera sempre più appropriata a problemi noti che si ripropongono nel corso della loro esperienza. 
I risultati degli esperimenti riportati in questo capitolo dimostrano che anche le piante possiedono quella facoltà che noi chiamiamo intelligenza, siamo noi che a causa del grande divario costruttivo che ci separa dagli animali non siamo in grado di comprenderlo.

Piante e comportamenti sociali

Anche se può andare contro il senso comune, le piante hanno una vita sociale. Essendo organismi sessili, la socialità riveste un ruolo ancora più importante che negli animali.
Primo comportamento sociale riscontrabile nelle piante sono le cure parentali.
Motore della vita, di tutti gli esseri viventi, è la proiezione dei propri geni nel futuro attraverso la riproduzione. Con due strategie, la gran parte degli animali basa la sopravvivenza della propria specie su strategie di massa. Moltissimi nati esposti a un’altissima mortalità, di questi, statisticamente una percentuale sopravvive. Questo è il metodo adottato dalla maggior parte degli animali inferiori, invertebrati, insetti, rettili ecc.; è una strategia con un saggio costi energetici - benefici molto basso.
In uccelli e mammiferi la strategia è opposta, e l’obiettivo è la sopravvivenza della prole. Il metodo prevede pochi nati, ma molta energia spesa per la loro protezione, tale comportamento è rappresentato dalle cure parentali.
Tornando alle nostre piante, in una foresta, (che è uno dei tanti ecosistemi in cui può vegetare un albero) i semi delle piante adulte cadono sul terreno, essi possono trovare condizioni di luce favorevoli, e rappresenta il caso meno frequente, oppure possono cadere nell’ombra del sottobosco, ambiente estremamente avverso alle giovani pianticelle per la pochissima luce, e la grande competizione. Ma le giovani piante riescono a sopravvivere decenni, aspettando che una pianta adulta muoia o cada per gli eventi meteorici, e così potersi sviluppare in altezza fissando il carbonio  attraverso la luce. Come svolge la pianta madre, o le piante vicine della propria specie, le cure parentali? Attraverso una complessa rete radicale che per anastomosi collega le piante tra loro, e all’interno delle quali interagiscono micorrizze che permettono uno scambio simbiotico di zuccheri in cambio di acqua e microelementi. Così facendo, la pianta adulta, in collegamento con la pianticella in deficit energetico, è in grado di fornirgli tutto ciò di cui ha bisogno, informazioni comprese. 

La mimosa pudica: un esempio di memoria

La mimosa pudica è stata oggetto di numerosissimi studi ed esperimenti tra il ‘600 e ‘800. Pierre Antoine de Monet cavaliere di Lamark (1744-1829) si occupò in particolare delle piante dette sensitive, che rispondono in maniera evidente a determinati stimoli.
Gli esperimenti condotti da Lamark tentavano di dare una spiegazione sul perché la pianta sottoposta a stimoli ripetuti della stessa natura, ad un certo punto ignorasse gli stimoli successivi.
Inizialmente fu data una spiegazione di tipo energetico, suggerita dal nostro modo di utilizzare l’energia. Le piante erano stanche, avevano finito l’energia, in modo analogo al lavoro muscolare degli animali che non può continuare all’infinito. A Lamarck la soluzione del problema fu suggerita da Renè Desfontaines (1750-1833), che chiese a un suo studente di portare in carrozza un folto gruppo di piantine in giro per Parigi, e di controllarne scrupolosamente i comportamenti.
Le piantine chiudevano le proprie foglie alle prime vibrazioni del pavé parigino; continuando il tour al trotto moderato ma costante le pianticelle cominciarono ad aprirsi una ad una nonostante lo stimolo delle vibrazioni fosse lo stesso. Le piante avevano adottato un comportamento adattivo derivante dalla memorizzazione di informazioni (l’esperimento di Defontains è contenuto in: Flore Francaise di Lamark e De Candolle).
Nel 2013 il Professor Stefano Mancuso direttore del LIV (Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale dell’università di Firenze), insieme alla professoressa Monica Gagliano, hanno ripetuto l’esperienza. Lo scopo dell’esperimento era duplice: da un lato dimostrare che le piantine erano in grado, dopo un certo numero di ripetizioni, di identificare uno stimolo come non pericoloso e dall’altro che le piantine, dopo un adeguato periodo di preparazione, fossero in grado di distinguere, tra due stimoli, uno dei quali noto, e rispondere in maniera appropriata.
In definitiva, l’obbiettivo dell’esperimento era dimostrare se le piantine fossero in grado di “ricordare” uno stimolo non pericoloso, cui erano state sottoposte, e distinguerlo da uno nuovo potenzialmente pericoloso.
L’esperimento è stato denominato “Lamark Defontaines” e prevedeva che le piantine fossero sottoposte a ripetute cadute da un’altezza di circa 10 cm.
L’escursione del salto, rappresenta l’intensità dello stimolo. Dopo circa sette, otto ripetizioni, le piantine non reagivano più agli stimoli. Avevano esaurito l’energia?
Le piantine vengono ora sottoposte a uno stimolo diverso, scuotendole in senso orizzontale, esse reagiscono al nuovo stimolo. Sono quindi dotate di memoria, hanno memorizzato una situazione e sono state in grado di riconoscere quando questa si verifica. Ma quanto dura la memoria? Per rispondere a questa domanda i due biologi hanno lasciato indisturbate le piante addestrate a riconoscere i due stimoli e controllando se mantenevano la memoria di ciò che avevano appreso.
La mimosa pudica mantiene la memoria per oltre quaranta giorni! Un tempo che è superiore a quella degli insetti e vicina a molti animali superiori.  

Boquilla trifoliata: un esempio di mimetismo

Una delle strategie adottate dalle piante per massimizzare le proprie probabilità di sopravvivenza, è il mimetismo.
Attraverso il mimetismo, alcune piante riescono ad ingannare organismi viventi considerati intelligenti e grazie a questo meccanismo, riescono a sopravvivere e massimizzare i propri benefici.
Esistono due tipi di mimetismo: il mimetismo fanerico (dal greco phaneròs, manifesto), nel quale un organismo ne imita un altro in comportamenti, forme o colori, e il cosiddetto mimetismo criptico (dal greco Kriptòs, nascosto), in cui un organismo si rende invece invisibile imitando l’ambiente che lo circonda.
Quando un essere vivente emette un segnale di qualunque tipo (visivo, olfattivo, uditivo…) verso un altro, con lo scopo di influenzare il comportamento a proprio favore, siamo difronte a un fenomeno mimetico. Perché ci sia mimesi c’è bisogno, quindi, di un modello (cioè l’organismo emittente che produce il messaggio autentico), di un mimo (che riproducendo il segnale di un modello si avvantaggia) e, infine, di un destinatario (colui che deve reagire al messaggio in maniera utile al mimo).
Campionessa di mimesi vegetale è la Boquilla trifoliata, autoctona delle foreste temperate del Cile che riesce a modificare la forma delle proprie foglie per sfuggire ai predatori.
Nel 2013 il botanico Ernesto Gianoli si accorge che una pianta di Boquilla presentava foglie diverse dalle consuete. Essendo una rampicante, aveva modificato le proprie foglie facendole assomigliare alla pianta ospite diminuendo così le probabilità di predazione.
Inizia a studiare la faccenda con attenzione e scopre, non solo che la Boquilla imita le foglie delle piante su cui si arrampica, ma è capace di imitare più piante vicine a lei in modo da diminuire ulteriormente la possibilità di attacchi, e lo fa anche imitando specie tossiche per gli insetti in modo che il travestimento funzioni da deterrente.
Per possedere queste fantastiche doti di travestimento è necessario avere una grande flessibilità nell’espressione dei propri geni. Doti al momento mai riscontrate in nessun altro essere vivente.
Ma l’aspetto che più ci interessa è che la Boquilla, per poter imitare le foglie di altre piante efficacemente, ha bisogno di riconoscere un modello, che produce il messaggio autentico, e di un destinatario (insetti, erbivori, ecc.), a cui far recapitare il messaggio, ma soprattutto riconoscere che il messaggio imitato deve far reagire il destinatario in modo vantaggioso per il mimo.
Non solo, per poter riconoscere il modello come efficiente allo scopo di far reagire il destinatario in modo vantaggioso per il mimo, ha bisogno della memoria. Deve aver immagazzinato l’informazione del tipo: “la tale pianta è poco appetibile al tale predatore ecc.”.
Ernesto Gianoli, insieme allo studente Fernando Garrasco Urra, ha tentato di rispondere alla domanda: come fa la pianta a sapere cosa deve imitare? A questo  proposito sono state formulate due ipotesi.
La prima è che, grazie alla percezione delle sostanze volatili emesse la Boquilla sia in grado di identificare il modello. La seconda presuppone un eventuale trasferimento orizzontale dei geni della pianta ospite alla Boquilla, veicolato da qualche microrganismo.
Queste due ipotesi non convincevano il professor Stefano Mancuso che nel settembre del 2016 insieme al professor Frantisek Baluska dell’Università di Bonn ha avanzato una nuova ipotesi.
Secondo i due ricercatori, le piante sono dotate di una rudimentale forma di visione.
Già nel 1905 il botanico Gottlieb Haberlandt (1854- 1945), sosteneva che le piante fossero in grado di percepire le immagini possedendo una certa capacità visiva attraverso le cellule dell’epidermide.
Secondo l’ipotesi di Haberlandt, le cellule funzionano come semplici occhi primitivi denominati ocelli. Tale spiegazione fu sostenuta anche da Francis Darwin (1848-1925) negli scritti sulla percezione delle piante, il quale ne sottolineò la fondatezza scientifica.
Harold Wager (1862-1929), fellow della Royal Society, durante il congresso di Dublino in cui Francis Darwin sostenne che le piante fossero in grado di ricordare e di avere comportamenti, mostrò numerose fotografie di persone e panorami della campagna inglese, prodotte utilizzando come lenti le cellule dell’epidermide fogliare, per dimostrare che, almeno da un punto di vista ottico, la visione delle piante è possibile.
La teoria di Haberlandt fu accantonata fino agli anni più recenti quando un nuovo studio condotto su un procariota, il cianobatterio Synechocystis sp. PCC 6803, ha dimostrato che esso è in grado di misurare intensità e colore della luce attraverso dei fotoricettori, e di usare l’unica cellula di cui è composto come una micro-lente per misurare la propria posizione rispetto a una sorgente luminosa. “L’immagine della sorgente luminosa entra attraverso la membrana convessa della cellula ed è proiettata sulla faccia opposta, innescando movimenti di allontanamento”.  

Mirmecofilia: comportamento intelligente e manipolazione

Charles Darwin e Federico Delpino (1833- 1905) intrattennero una corrispondenza sulla produzione di nettare extrafiorale. Il nettare è una sostanza zuccherina prodotta dalle piante nei fiori per attirare gli insetti e utilizzarli come vettore per il trasporto del polline. Alcune specie producono questa sostanza anche all’ascella delle foglie e sui rami. Per Darwin si trattava semplicemente di una sostanza di scarto, ma questa ipotesi non convinceva il botanico ligure, che riteneva  energicamente svantaggioso produrre e scartare una sostanza così ricca di zuccheri.
Continuando i suoi studi Delpino scoprì e spiegò la mirmecofilia (dal greco mùrmex, formica e philos, amico). Nel 1886 Delpino pubblicò una monografia con tremila specie mirmecofile.
Il nettare extrafiorale prodotto su rami, germogli e all’ascella delle foglie, molto ricco di zuccheri e molto costoso in termini energetici, attira le formiche, che in cambio del vitto ricevuto proteggono la pianta dai predatori con tutta la loro aggressività.
Questa tecnica di difesa alcune specie l’hanno perfezionata a livelli raffinatissimi.
 Alcune specie di Acacia producono particolari corpi fruttiferi, per l’alimentazione delle formiche, e gli forniscono spazi dove vivere e allevare le proprie larve, ricavati all’interno di strutture specifiche.
Il nettare prodotto da queste piante, non contiene solo zucchero, ma altri composti chimici come: alcaloidi e aminoacidi non proteici come l’acido ɣ-amminobutirrico (GABA), la taurina e la β-alanina. Queste sostanze interferiscono con il sistema nervoso, regolando l’eccitabilità neuronale. Altre sostanze alcaloidi, come caffeina, nicotina ecc. inducono dipendenza, e convincono le formiche a non cambiare pianta. La pianta modificando la produzione di queste sostanze neuroattive all’interno del nettare extrafiorale pilotano i comportamenti delle formiche modulando aggressività, mobilità ecc.
Il comportamento delle formiche è volto a difendere la propria fonte di cibo, e per questo gli entomologi lo considerano intelligente.
Se la mirmecofilia è considerata un comportamento intelligente da parte degli animali, perché non dovrebbe esserlo anche da parte delle piante?
Le piante non sarebbero più esseri passivi in balia delle proprie necessità, ma organismi viventi complessi capaci di manipolare i comportamenti altrui. 

Ophris apifera: seduzione ed inganno

Le piante utilizzano la chimica per i propri fini. Secondo uno studio pubblicato sul “Current Biology” la Ceropegia Sandersonii riproduce alla perfezione le molecole dei feromoni prodotti dalle api in pericolo di morte. Queste molecole, vengono percepite da alcune specie di mosche carnivore, che si dirigono sulla pianta nella speranza di potersi nutrire di api, invece si trovano fiori che le utilizzano per disperdere il proprio polline. Esistono moltissimi casi di “manipolazione chimica” da parte delle piante, come quello messo in atto dalla Ophris apifera (un’orchidea spontanea dei boschi) che produce i feromoni emessi dalle femmine di alcuni imenotteri, e ne imita la forma e i colori. I maschi accorrono sulle orchidee sicuri di accoppiarsi, invece, ingannati da forma, colore e odore impollinano i fiori senza trarre alcun beneficio.
Qualunque sostanza pscicotropa utilizzata dagli animali (uomo compreso) è prodotta dalle piante. Le piante producono un numero impressionante di molecole, il cui unico scopo sembra essere quello di indurre uno stato di dipendenza sul cervello degli animali. Le piante utilizzano questi composti neuro-attivi per manipolare il comportamento degli animali, e trarne così dei benefici.
Alcune piante, come gli agrumi ed il caffè, arricchiscono il proprio nettare di sostanze come la caffeina quando l’impollinatore ha un comportamento molto efficiente, invogliandolo a tornare, diversamente se l’insetto non si comporta da buon impollinatore, queste sostanze spariscono.  
L’Arum palestinum richiama la Drosofila melanogaster (moscerino della frutta), riproducendo l’odore della frutta in decomposizione; gli insetti, attratti dai composti volatili emessi dalla pianta si tuffano nel fiore che, come una trappola, si chiude sequestrandoli per una notte intera. Al mattino, quando il fiore si apre la Drosofila, ricoperta di polline, può uscire e attratta nuovamente da un altro Arum lo feconda. Questo rappresenta un caso di palese ricorso alla forza coercitiva da parte delle piante sugli animali. Molte piante utilizzano animali molto più evoluti degli insetti per ottenere la diffusione del proprio patrimonio genetico. La Protea cynaroides utilizza come impollinatore il Promerops cafer detto anche Cape sugarbird (uccello impollinatore). Molti cactus, come il Chefalocerus senilis o l’Hylocereus undatus che aprono i fiori nelle ore notturne, a causa delle alte temperature, affidano l’impollinazione ai pipistrelli. Per rendere ancora più efficiente il lavoro degli impollinatori alcune specie hanno sviluppato fiori a forma di parabola, che riflettono le onde emesse dai chirotteri per guidarli nella notte.  

Le piante: organismi viventi e senzienti

“Benché trattenuta dalla radice, essa si volge sempre verso il sole, e anche così trasformata gli serba amore”. OVIDIO, Metamorfosi

La vista  

Nel linguaggio comune “essere un vegetale” assume una connotazione di immobilità e incapacità sensoriale, “essere ridotto a un vegetale” denota una privazione di quelle che sono normalmente riconosciute come caratteristiche di un “essere intelligente”.
Eppure le piante sono capaci di percepire e rispondere a moltissimi stimoli.
Come abbiamo già detto, le piante non sono immobili, ma radicate. Organismi sessili. Per poter resistere e adattarsi ai mutamenti dell’ambiente hanno sviluppato complessi apparati sensoriali e regolatori per modulare la propria crescita a condizioni sempre diverse. Una pianta non ha un sistema nervoso centrale, non c’è un cervello che coordini le informazioni all’interno dell’organismo. Tuttavia una pianta conosce moltissime cose dell’ambiente in cui vive. Queste informazioni riguardanti la luce, le sostanze chimiche presenti nell’aria e la temperatura circolano all’interno dell’organismo. Radici, fusto, foglie ecc. comunicano per far sì che il vegetale si ponga nelle migliori condizioni nei confronti dell’ambiente. 
Essendo la luce alla base della dieta energetica della pianta, ogni strategia messa in atto da quest’ultima ha come obiettivo accedere alla fonte luminosa per poter svolgere la fotosintesi. Il fototropismo (dal greco fhòs, luce, e trépestai, muoversi) è il movimento che compie la pianta per ricevere la luce in modo ottimale. 
Daniel Chamoviz, nelle sue ricerche sui sensi delle piante, ha scoperto un gruppo specifico di geni che permette alla pianta di sapere se si trova esposta alla luce o al buio. Lo stesso gruppo di geni fa parte del DNA umano, e sono questi che regolano anche le risposte alla luce. A livello genetico le piante sono più complesse di molti animali, e questo gli ha permesso di sviluppare complessi apparati sensoriali e regolatori che consentono di modulare la propria crescita in condizioni sempre differenti. Anche sprovviste di un sistema nervoso centrale, le piante monitorano costantemente il loro “ambiente visibile”. Riescono a porsi nelle migliori condizioni rispetto all’ambiente, grazie allo scambio di informazioni sulla luce, sostanze chimiche e temperatura tra le varie parti della pianta. Le piante non vedono per immagini. La nostra retina è ricoperta di file e file di recettori, speciali proteine chiamate fotoricettori. Il cervello poi elabora queste informazioni alle quali noi reagiamo. 
Charles e Francis Darwin condussero un esperimento (riportato in The power of moviment in the plants, 1898) per dimostrare una qualche sensibilità delle piante a percepire e rispondere a determinati stimoli luminosi. I due fecero crescere per diversi giorni alcune piantine di Canaria (Phalaris canariensis ) in una stanza completamente buia. Poi le illuminarono con una lampada a gas molto piccola collocata a circa quattro metri e regolata a una luce così bassa “da non poter vedere nemmeno le piantine stesse né una riga a matita sulla carta”. Dopo tre ore le piantine si erano tutte inclinate verso la fioca luce, e la curvatura avveniva sempre nello stesso punto, a circa tre centimetri dall’estremità superiore. 
Ipotizzando che gli occhi della pianta fossero collocati nella parte superiore, e non all’altezza della curvatura, controllarono sperimentalmente il “fototropismo” in cinque differenti casi. 
Con questo esperimento i Darwin mostrarono che il fototropismo è l’effetto della luce che colpisce l’estremità del germoglio, la quale vede la luce e trasferisce questa informazione alla sezione centrale, quest’ultima può orientare la pianta in quella direzione. 

L’olfatto

“L’olfatto è la capacità di percepire un odore o un profumo attraverso stimoli che agiscono sui nervi olfattivi”. In questo processo sono coinvolte: le cellule del naso, che raccolgono sostanze chimiche presenti nell’aria, e rappresentano lo stimolo, il cervello, che elabora le informazioni e il sistema nervoso che veicola le informazioni. Nel caso dell’olfatto, abbiamo centinaia di tipi di recettori, ciascuno specializzato per una singola sostanza chimica volatile. Ogni sostanza chimica possiede una propria forma particolare che si adatta a un recettore proteico specifico. Quando una sostanza “aggancia” il suo recettore, il nervo viene stimolato e l’informazione raggiunge il cervello. Noi animali percepiamo questo come uno specifico odore. La mancanza di naso, nervi e cervello escluderebbe alle piante la capacità di annusare? 
Nel 1924 Frank E. Denny ricercatore al dipartimento dell’agricoltura degli Stati uniti a Los Angeles condusse alcuni esperimenti, dimostrando che le piante possiedono la capacità di percepire sostanze volatili. 
I contadini della Florida erano soliti maturare gli agrumi in casotti riscaldati a cherosene, convinti che a indurre la maturazione fosse il calore, quando li sostituirono con riscaldatori elettrici notarono che gli agrumi non velocizzavano il processo  di maturazione. Gli studi di Denny, condotti su alcuni limoni, dimostrarono che le piante percepivano modeste quantità di etilene nell’aria, e traducevano questo in una accelerazione della maturazione.  
Nel 1983 David Rhoades e Gordon Orians dell’Università di Washington osservarono che gli alberi di salice avevano meno probabilità di essere attaccati dai bruchi se vicino c’erano altri salici che avevano già subito l’attacco. Le foglie dei salici che non subivano attacchi contenevano sostanze fenoliche e tanniche che le rendevano sgradite agli insetti. Le Piante non avevano radici in comune e i rami non si toccavano, non c’era nessun collegamento tra piante danneggiate e piante indenni. Tre mesi dopo le osservazioni in natura di Rhoades e Orians, altri ricercatori, Dartmouth Ian Baldwin e Jack Schultz pubblicarono uno studio condotto in condizioni controllate, su piantine di pioppo e acero da zucchero cresciute in contenitori di plexiglas a tenuta d’aria.
Nel primo contenitore c’erano due gruppi di alberelli, quindici con foglie lacerate a metà e quindici senza danni. Il secondo conteneva alberelli non danneggiati con funzione di controllo. Due giorni dopo le foglie degli alberelli danneggiati e quelli intatti contenevano livelli maggiori di un certo numero di sostanze chimiche come composti tannici e composti fenolici velenosi. Mentre gli alberi presenti nel contenitore di controllo non presentavano alcuna alterazione. Baldwin e Schultz ipotizzarono che le foglie danneggiate emettessero un segnale gassoso che consentiva agli alberi integri di reagire allo stimolo adattandosi all’ambiente. In questo caso non è una capacità limitata al solo percepire (in questo caso con l’olfatto) e reagire di conseguenza, ma coinvolge la sfera della comunicazione. La pianta integra reperisce il messaggio del tipo: “attenzione! Pericolo, emettere sostanze nocive per difendersi da attacchi..” e conseguentemente modifica il proprio equilibrio interno per massimizzare il beneficio che può trarre dalla comunicazione. 

Il tatto

Quando noi entriamo in contatto con un oggetto, vengono attivati dei nervi che inviano un segnale al cervello comunicando il tipo di sensazione, pressione, dolore, temperatura e così via. Specifici neuroni sensoriali disposti nella pelle, nei muscoli e nelle ossa percepiscono attraverso il sistema nervoso le sensazioni fisiche. Come i differenti fotoricettori sono specifici per i diversi colori della luce, differenti neuroni sensoriali sono specifici per diverse esperienze tattili. 
La Dionea muscipola  o Venere acchiappamosche è un esempio rappresentativo della capacità delle piante di rispondere agli stimoli tattili. Vivendo in paludi dove il terreno è povero di fosforo (P) e azoto (N) la Dionea ha sviluppato una raffinata tecnica per sopperire alla carenza di questi due microelementi integrando la sua dieta energetica a base di luce, con proteine animali. La particolare forma della foglia, composta da due lobi incernierati con lunghe ciglia all’estremità diventa una trappola mortale, non solo per insetti, ma anche animali di taglia più grande. Quando un insetto, attirato dall’irresistibile nettare della Dionea si posa sulla sua foglia, in meno di un decimo di secondo i lobi si serrano e le ciglia fungono da sbarre intrappolando la preda, mentre i succhi digestivi la assorbono. Grazie agli studi di Charles Darwin, riportati nel trattato Piante insettivore del 1875 sappiamo che la Dionea “sceglie” la propria preda in base alle dimensioni. All’interno dei lobi, di colore rosa, si trovano dei peli neri che fungono da “grilletto” per la trappola, due di questi “grilletti” devono essere azionati entro venti secondi l’uno dall’altro assicurando così la taglia ideale della preda. 
Gocce d’acqua o un costante rigagnolo, cadendo da una certa altezza dai filamenti (peli) non fanno scattare le lame […]. Senza dubbio la pianta è indifferente al più pesante bagno di pioggia […]. Ho soffiato molte volte con tutte le mie forze attraverso un sottile tubicino contro i filamenti senza alcun effetto; tale soffio essendo ricevuto son la stessa indifferenza riposta in una burrasca di vento. Vediamo, quindi, che la natura dei filamenti è di natura specializzata. (Piante insettivore Charles Darwin 1875). 
Contemporaneo di Darwin, il medico, docente di fisiologia pratica all’University college di Londra, Burdon Sanderson, rimasto affascinato dagli studi di Darwin sulla Venere acchiappamosche decise di condurre un esperimento. Introdusse un elettrodo nella foglia della Venere acchiappamosche e scoprì che premendo su due peli liberava un potenziale di azione simile a quelli osservati durante le contrazioni dei muscoli animali. Sanderson poteva solo ipotizzare che il segnale elettrico fosse la causa diretta della chiusura. Oltre cento anni dopo, Alexander Volkov dell’Oakwood University in Alabama trattando i lobi aperti della Dionea con elettroshock, dimostrò, facendo chiudere i lobi senza contatto con i peli che fungono da innesco, che è proprio la stimolazione elettrica a rappresentare il segnale di chiusura della trappola. 
Dagli studi condotti sembra proprio che questa abilità della Dionea non sia un accidente dell’evoluzione, ma una strategia evolutiva raffinata nella quale è presente una certa volontà e consapevolezza. A livello elettrofisico la chiusura della Venere e un impulso nervoso animale non sono molto differenti. 
Noi possiamo provare una combinazione varia e complessa di sensazioni fisiche a causa della presenza di nervi recettori meccanosensoriali specializzati, e del cervello che traduce questi segnali in sensazioni provviste di connotati emotivi. 

L’udito 

Quando noi sentiamo o ascoltiamo qualcosa, avvertiamo le onde di pressione dell’aria tramite una particolare forma di meccanocezione da parte delle cellule ciliate, sensibili al tatto nel nostro orecchio interno. Queste cellule sono nervi specializzati dotate di filamenti, che oscillano colpiti dall’onda di pressione dell’aria. Le cellule ciliate convogliano due informazioni: volume e tono. Il volume è determinato dall’ampiezza delle onde, il tono dalla frequenza.   
Maggiori sono ampiezza e frequenza e maggiormente si piegano le stereociglia. Quando queste flettono originano potenziali di azione che vengono trasmessi dal nervo uditivo fino al cervello che li elabora facendoceli percepire come suoni.
Moltissimi sono stati gli studi sulla capacità delle piante di udire. La maggior parte di essi hanno cercato di dimostrare che il comportamento e la crescita delle piante possano essere influenzate dalla musica.   
Ma nessuno di questi studi è riuscito a dimostrare una diretta dipendenza tra la crescita della pianta e la musica ascoltata, se non rinunciando al rigore scientifico richiesto per tali esperimenti.  Comunque siano andate le cose, l’assenza di una conferma sperimentale non equivale a una conclusione negativa. Recentemente il professor Mancuso ha impiegato le onde sonore per incrementare il raccolto di un vigneto in toscana, “Phonobiologic Wines”,   
Roman Zweifel e Fabienne Zeugin dell’Università di Berna hanno rilevato la presenza di vibrazioni ultrasoniche emanate da alberi di Pino e Quercia durante i periodi di siccità. I due scienziati ipotizzano che queste vibrazioni, provenienti dalle modificazioni dei vasi xilematici, non siano un risultato passivo di forze fisiche, ma vibrazioni ultrasoniche per comunicare a gli altri alberi un clima arido. Essendo l’apparato uditivo delle piante molto diverso dal nostro, un eventuale esistenza di esso potrebbe essere ancora fuori dalla portata della maggior parte degli strumenti attualmente impiegati in fisiologia. Il vantaggio evolutivo dell’udito in noi animali consiste principalmente nel rilevare situazioni potenzialmente pericolose, e comunicarle rapidamente ai nostri simili. La strategia maggiormente impiegata per risolvere situazioni pericolose è il movimento e la fuga. Dal momento che le piante sono organismi sessili, non fuggono dalle situazioni pericolose e operando su una scala temporale diversa da quella animale non hanno bisogno di comunicazioni rapide.  

La propriocezione: nessun organo dedicato 

“Essere in grado di mantenere la propria organizzazione interna a fronte della naturale spinta verso la degradazione e il disordine è una caratteristica che qualunque organismo deve avere, a prescindere dal suo livello di complessità”. Stefano Mancuso

Noi conosciamo la posizione del nostro corpo, e delle parti di esso in relazione l’una con l’altra, senza ricorrere alla vista. A differenza dei sensi, che sono orientati verso l’esterno, questo sesto senso, la propriocezione, è orientato all’interno. Mentre ogni senso fa capo a un organo specializzato, alla propriocezione non vi è nessun organo dedicato. La propriocezione deriva dal convogliare informazioni provenienti dall’orecchio interno (che comunicano l’equilibrio), da informazioni provenienti da nervi specifici disseminati in tutto il corpo che comunicano la posizione. I recettori propriocettivi informano il cervello della posizione dei nostri arti. 
Le piante conoscono la propria posizione nello spazio, le radici affondano nel terreno, i rami della chioma non toccano i rami dell’albero accanto, un rampicante si dirige verso un sostegno e i semi germinando orientano le radici nel terreno e il germoglio verso l’alto.
Nel 1758 Henri Louis Duhamel du Monceau osservò che se si capovolgeva una piantina, le radici si orientavano verso il basso, e il fusto verso l’alto.
Oggi distinguiamo: gravitropismo positivo per indicare che le radici sono attratte dalla forza di gravità, e gravitropismo negativo per indicare la crescita opposta dei fusti. Cinquant’anni dopo, Thomas Andrew Knight per provare che realmente sia la gravità a influire sulla crescita delle piante, riproduce un eroico esperimento costruendo una macchina capace di annullare l’effetto della gravità, e contemporaneamente applica una forza centrifuga che agisce sulle radici. Alla fine del trattamento ( le piante furono sottoposte a 150 rotazioni al minuto per diversi giorni) tutte le radici erano cresciute verso l’esterno, e i fusti verso l’interno.  Adesso le osservazioni di Duhamel sono confermate, ma come faceva la pianta a percepire la gravità? 
Nel diciannovesimo secolo saranno Charles e  Francis  Darwin a compiere gli studi definitivi.  I Darwin erano interessati a determinare quale parte della pianta fosse in grado di percepire la gravità. Partendo dall’ipotesi che fossero collocati dei “gravicettori” all’estremità della radice, presero piante di fagiolo, piselli e cetrioli, gli recisero a vari livelli le radici, e le collocarono sul terreno disposte di fianco. Osservarono, che anche se le radici continuavano ad allungarsi e a crescere, non erano capaci di orientarsi verso il suolo. Un’amputazione dell’estremità di 0,5 millimetri era sufficiente a rendere la radice insensibile alla gravità. Come nell’esperimento sul fototropismo anche nelle radici l’informazione è captata dall’estremità, ma il movimento avviene nella sezione centrale. I Darwin ipotizzarono che l’estremità inviasse un segnale al resto della radice informandola di crescere seguendo il vettore gravità. Per confermare tale ipotesi, infilzarono con uno spillo un seme di fagiolo, lo collocarono su un fianco sul terreno, attesero novanta minuti e amputarono l’estremità della radice. La radice si ri-orientava verso il basso anche amputata. Conclusero che le istruzioni alla radice fossero già state veicolate dall’estremità alla radice nei novanta minuti trascorsi prima dell’amputazione.   
Un secolo dopo, i risultati dei Darwin furono confermati dalla genetica. Le cellule all’estremità della radice (regione denominata cuffia) percepiscono la gravità e informano il resto della pianta in quale direzione si trovi il basso e l’alto. 
Le cellule presenti nell’area centrale della cuffia contengono dense strutture chiamate statoliti che, analogamente agli otoliti presenti nelle nostre orecchie, sono più pesanti delle altre parti della cellula e cadono sul fondo delle cellule della cuffia. Quando una radice è collocata sul fianco, gli statoliti cadono sul nuovo fondo della cellula. John Kiss e altri ricercatori della Miami University in Ohio hanno recentemente condotto esperimenti impiegando un campo magnetico, che simulava la gravità. Sottoposti al campo magnetico gli statoliti son migrati lateralmente, come se le piantine fossero state messe su un fianco; le radici cominciarono a piegarsi nella stessa direzione presa dagli statoliti. Tale risultato conferma l’ipotesi che sia la posizione degli statoliti a informare una pianta sulla direzione basso-alto. In assenza di gravità, gli statoliti non possono cadere sul fondo della cellula, e la pianta non può istruire la radice sulla direzione da seguire. 

Conclusioni

“ Senz’altro la centralizzazione tipica dei sistemi animali garantisce una maggiore rapidità nel processo decisionale (ma attenzione, in altre no: le risposte ponderate richiedono sempre tempo), la velocità è un fattore del tutto marginale nella vita delle piante. Ciò che davvero interessa a queste ultime non è tanto rispondere in fretta, quanto rispondere bene, così da risolvere i problemi.”
Stefano Mancuso

Elden Tulving suddivise la memoria umana in tre livelli. La memoria procedurale o implicita che comprende il modo in cui si fanno le cose percependo lo stimolo esterno (come nuotare quando ci buttiamo in piscina) ed è la memoria di primo livello. La memoria di secondo livello è semantica, o dei concetti  riguarda le cose apprese ( ad esempio la cultura appresa a scuola). Al terzo livello troviamo la memoria episodica, che riguarda il ricordo di eventi autobiografici, quest’ultima dipende dalla coscienza di sé dell’individuo. La memoria di secondo e terzo livello ci separa dalle piante, le quali non la possono averle.
 Ma i vegetali sono pienamente capaci di percepire le stimolazioni esterne e reagire ad esse. I modelli di Tulving per la memoria ormai sono accettati, ma non bisognerebbe considerarli come assoluti: per quanto concerne la memoria vi sono numerosi altri modelli e teorie. 
Esiste la memoria sensoriale, che riceve e filtra input dagli organi sensoriali, la memoria a breve termine che trattiene fino a sette informazioni a livello cosciente per svariati secondi. La memoria a lungo termine che è la nostra capacità di conservare i ricordi per tutta la durata della vita. La memoria muscolo motore che costituisce il processo inconscio di apprendimento dei movimenti. Tutti questi tipi di memoria dipendono dalle funzioni cerebrali. Poi esiste la memoria immunologica, che non dipende dalle funzioni cerebrali, ed interviene quando il nostro sistema immunitario ricorda trascorse infezioni. Qualunque forma di memoria ha in comune i processi di formazione del ricordo, il mantenimento di esso e il suo richiamo al momento opportuno. Analizzando il comportamento della Venere acchiappamosche (Dionea muscipula) già vista precedentemente notiamo: la Dionea riceve l’input, codifica l’informazione che qualcosa ha toccato una delle sue ciglia, mantiene l’informazione per un certo tempo, recupera tale informazione nel momento che viene toccata un’altra ciglia. In questo processo vengono coinvolte: la memoria sensoriale, che riceve l’input, e la memoria a breve termine che custodisce il primo input in attesa del secondo.
Dieder Hodick e Andreas Sievers dell’università di Bonn hanno ipotizzato come faccia la Dionea a conoscere l’informazione su quante ciglia vengono toccate, e per quanto tempo sia mantenuta la carica elettrica della foglia. Per scattare, la trappola necessita di una concentrazione alta di ioni calcio e il potenziale di azione causato dal tocco di un solo “detonatore” non raggiunge questo livello, quindi è necessario stimolare una seconda ciglia. La codifica dell’informazione è il mantenimento di un livello di calcio sufficientemente alto da permettere con un secondo incremento  lo scatto della trappola. Diversamente, se il secondo input tarda ad arrivare la concentrazione di ioni calcio sarà insufficiente a far scattare la trappola, il ricordo è andato perduto.
Le condizioni sfavorevoli alla sopravvivenza, comportano nelle piante, una modificazione del genoma con nuove combinazioni di DNA. La pianta (come qualsiasi altro organismo) per sopravvivere ha bisogno di trovare sistemi di sopravvivenza in condizioni sfavorevoli. Un metodo sono le variazioni genetiche. Lo studio di Barbara Hohn e dei suoi colleghi  del laboratorio di Basilea mostra che le piante sollecitate danno origine a nuove combinazioni di DNA, ma non si limita alla sua generazione, anche la progenie produce le stesse nuove combinazioni anche se non esposta direttamente a sollecitazioni. Le sollecitazioni a carico dei genitori ha provocato un cambiamento, stabile ed ereditario, a tutta la progenie. Da tutti questi studi possiamo concludere, che anche se lontana dal concetto che abbiamo noi della memoria, anche le piante ne possiedono una. La strategia di chiusura della foglia di Dionea muscipula e il ricordo delle sollecitazioni ambientali negli esperimenti della Hohn sono tutti processi di formazione del ricordo, di conservazione di esso (per un determinato periodo) e del suo richiamo nel momento successivo per ottenere una specifica risposta. I ricordi, come li intendiamo quando parliamo di piante, come quelli immunologici degli animali, non sono semantici o episodici, ma procedurali, secondo le definizioni di Tulving; sono ricordi di “come fare le cose”. 
Anche se gli studi della Hohn non furono accettati universalmente, tuttavia è sorta una nuova era della genetica in cui una memoria di eredità epigenetica è stimolata dai ricordi di una sollecitazione. 
Cercare di definire l’intelligenza è insidioso, inizialmente considerata ad appannaggio solo dell’uomo è stata poi estesa a molti animali, compresi i batteri. Nel 1876 il medico e botanico William Lauder Lindsay dichiarò: “A me pare che certi attributi , come capita nell’Uomo, siano comuni con le Piante”.
Anthony Trewards fisiologo vegetale dell’università di Edimburgo sostiene che anche se l’Homo sapiens è più intelligente degli altri esseri viventi, l’intelligenza è una caratteristica biologica, e come tale comune a tutti gli esseri viventi. 
  Nel 2006 viene coniato per la prima volta il termine neurobiologia vegetale, che mira allo studio delle reti informative presenti nelle piante. Le avveniristiche idee di Charles Darwin sono state sviluppate dal professor Stefano Mancuso dell’università di Firenze e Frantioek Baluoka dell’Università di Bonn. Molti biologi vegetali criticano le idee alla base della neurobiologia vegetale sostenendo la carenza delle basi teoriche e la sua inutilità a farci comprendere meglio la fisiologia vegetale o la biologia alla base delle cellule. Insomma viene criticata la sua sterilità e l’impossibilità di accrescere la nostra conoscenza degli esseri viventi. I neurobiologi vegetali stessi ammettono che il termine è provocatorio. Per me le implicazioni che derivano da questi studi non sono solo risultati scientifici, ma il punto di partenza per riflettere sulla posizione dell’uomo e per agire di conseguenza. Condividere l’intelligenza, almeno da un punto di vista qualitativo, con tutti gli altri esseri viventi dovrebbe portarci a progettare il nostro futuro in maniera più consapevole. Minare l’antropocentrismo non è un modo per togliere centralità all’essere umano, ma per migliorare la qualità del suo sguardo sul mondo.

CAPITOLO 4 - COME RISOLVERE ALCUNI PROBLEMI ISPIRANDOSI AL MONDO VEGETALE: ESPERIENZE PASSATE E NUOVE FRONTIERE

“Guarda con profondità la natura, capirai meglio ogni cosa”
Albert Einstein (1879-1955)

Il nostro approccio progettuale è sempre stato volto alla replica delle funzioni umane, migliorate e potenziate, ma limitate dalle funzioni affidate ad organi centralizzati. Con questo metodo organizziamo le nostre attività, modelliamo tutto con una forma piramidale al cui vertice è affidato il comando, che si parli di PC, aziende o altro, tutto ricalca il nostro schema costruttivo.  
Ma è davvero il miglior modo per progettare? 
Abbiamo visto che la modularità con cui sono costruite le piante offre maggior possibilità di sopravvivenza, maggior adattabilità ai mutamenti ambientali e una grande flessibilità nella risoluzione dei problemi; che le loro funzioni diffuse sono maggiormente efficaci in caso di predazioni ed eventi catastrofici.
Abbiamo visto che le piante sono sensibili in quanto dotate di sensi, sono capaci di comunicare sia tra loro che con altri animali, di percepire gli stimoli esterni e modificare il proprio assetto interno per adattarsi all’ambiente, manipolare altre specie, sedurle e utilizzarle per i propri fini.  
Percepiscono, memorizzano ed elaborano dati, comportandosi come una rete vivente dotata di propriocezione. Non sono organismi passivi, ma esseri viventi che hanno messo in atto raffinate strategie evolutive, e con queste sono in grado di rappresentare il 99% della massa vivente del nostro pianeta. 
Il loro modello costruttivo, così diverso dal nostro, può essere preso come modello progettuale, e trarre “intelligentemente” dei benefici da queste caratteristiche che non appartengono al nostro percorso evolutivo. Questo metodo progettuale è denominato approccio bioispirato ed è già stato utilizzato in molti casi per rivoluzionare il nostro modo di pensare. 
La bioispirazione è una concezione che si basa sullo studio e rielaborazione della natura, per riproporre modelli non umani nelle nostre tecnologie e così soddisfare esigenze e risolvere problemi. 
Vengono qui di seguito riportati alcuni casi in cui, è stato necessario abbandonare il nostro modello costruttivo basato sulla centralizzazione e l’assorbimento dell’energia, per adottare un nuovo punto di vista.

Lo strobilo: movimento passivo e concentrato tecnologico

“Quanto io più studio la natura, tanto più profonda si fa in me la convinzione che gli apparecchi e gli adattamenti mirabili, lentamente raggiunti in seguito alla variazione occasionale, lenta e assai molteplice di ciascuna parte e per la conservazione e l’accumulamento di quelle variazioni che sono utili all’organismo nelle complicate e sempre variabili condizioni di vita, sorpassano di gran lunga gli apparecchi e gli adattamenti che la più feconda fantasia dell’uomo possa inventare."
Charles Darwin (1809-1882)

Un esempio di approccio bioispirato è rappresentato dai risultati del dottor. Mingming Ma, che ha osservato e riprodotto alcuni movimenti che compiono le piante senza assorbire energia esterna, e ha realizzato un nuovo materiale ad alto contenuto tecnologico.
Le piante compiono due tipi di movimento, uno attivo, regolato da cambiamenti di turgore nelle cellule causato dal flusso osmotico attraverso la membrana cellulare, ed uno passivo. 
I movimenti passivi sono dovuti a variazioni igroscopiche di alcuni costituenti della parete cellulare. Quest’ultima è l’elemento che dona forma e rigidità alle piante. 
È costituita da fibre di cellulosa immersa in varie sostanze, polisaccaridi, emicellulosa, proteine solubili ecc. che assolvono alla funzione di collante. 
Queste sostanze che fungono da collante, sono una matrice morbida, che si combina con le molecole di acqua modificando la propria forma in maniera reversibile. 
Funzione dello strobilo è contenere il seme delle Gimnosperme, (letteralmente dal greco gymnóspermos “dal seme nudo”), cioè  non protetti in un ovario. Lo strobilo deve contenere il seme e poi rilasciarlo al momento più opportuno.
Se il clima fosse troppo umido il seme cadrebbe troppo vicino alla pianta (a causa dell’aumento di peso dovuto alla sua igroscopicità); bisogna quindi attendere un clima più secco in modo che il seme possa allontanarsi e avvantaggiarsi della luce.
Il tessuto morto, di cui sono costituite le brattee (foglie modificate che accompagnano fiori o infiorescenze) che compongono lo strobilo, è un materiale altamente tecnologico suddiviso in due tessuti. La superficie interna è composta da fibre sclerenchimatiche raggruppate in piccoli fasci simili a cavi in miniatura, la superficie esterna  è composta da scleredi corte e grosse. I due strati di tessuto sono diversamente igroscopici. A 23 °C una variazione dell’1 % dell’umidità determina un’espansione del 33% nelle scleredi  rispetto alle fibre sclerenchimatiche. 
I tessuti, espandendosi e ritirandosi, producono movimenti macroscopici senza bisogno di energia esterna.  
Nel 2013 il Dottor  Mingming Ma del MIT (Massachusets Institute of Tecnology) insieme ai suoi collaboratori ha sviluppato, ispirandosi alla tecnologia degli strobili, un film polimerico sensibile ai gradienti dell’umidità che può sviluppare pressioni fino a 27 megapascal e sollevare oggetti 380 volte più pesanti di lui. 
I campi in cui può essere impiegata questa tecnologia sono pressoché sterminati, dal risparmio energetico in edilizia, ai tessuti che modificano le proprie caratteristiche in funzione del clima in cui sono impiegati, il tutto senza assorbire energia esterna. 

La fillotassi come modello architettonico

“I materiali dell’urbanistica sono il sole, gli alberi, il cielo, l’acciaio, il cemento, in questo ordine gerarchico e indissolubile.”
Le Corbusier (1887-1965)

Non esistono confini che limitano l’ispirazione che possiamo trarre dall’osservazione del mondo vegetale, e non esistono campi di applicazione predefiniti in cui questa ispirazione può essere impiegata. Grazie a Leonado da Vinci (1452-1519) il quale per primo studiò i modelli che regolano la disposizione delle foglie sui rami oggi possiamo progettare grattacieli che massimizzano il risparmio energetico grazie alla rivoluzionaria disposizione delle unità abitative. 
La fillotassi (phyllon= foglia taxis=disposizione) “E’ la disposizione che garantisce alle foglie la migliore esposizione alla luce, senza che esse si ombreggino a vicenda”, descritta per la prima volta da Leonardo da Vinci, prima che il botanico Charles Bonnet (1729-1793) con i suoi studi venisse riconosciuto come scopritore.
Per non ombreggiare le proprie foglie all’interno della chioma e rendere massimamente vantaggiosa l’esposizione all’energia solare, ogni specie ha un proprio modello di successione nel disporre le foglie.
Ogni specie ha la propria formula fillotattica, ad esempio: 3/8 per il genere Pirus, significa che occorrono tre giri sull’asse centrale del ramo e una successione di otto gemme perché due foglie si trovino ortogonalmente nella stessa posizione.
Queste conoscenze non sono limitate alla classificazione botanica, ma possono essere impiegate in vari settori, dal risparmio energetico, l’orientamento dei pannelli solari fino all’architettura.
L’architetto iraniano Saleh Masoumi ha progettato la torre fillotattica, un grattacielo residenziale costruttivamente ispirato alla fillotassi. 
Solitamente il soffitto di un appartamento corrisponde al pavimento del piano superiore, e la disposizione delle finestre e dei muri, interni ed esterni, è tale da ombreggiarsi a vicenda per molte ore al giorno. Con queste caratteristiche costruttive, la luce intercettata da ogni appartamento è solo una parte di quella potenzialmente usufruibile.
La torre di Masuomi risolve questo problema disponendo le unità abitative secondo uno schema fillotattico  intorno all’asse centrale del grattacielo. In questo modo tutti gli appartamenti ricevono la luce proprio come le foglie sul ramo senza ombreggiarsi a vicenda. L’accesso alla luce sovrastante l’appartamento può essere utilizzata anche a fini energetici. Ispirarci alle piante non è solo un modo per rivoluzionare il nostro metodo costruttivo, ma può diventare la chiave di svolta che permetterà alle nostre attività di gravare meno sul bilancio energetico del nostro pianeta. 

Jellyfish barge e le fattorie galleggianti

“L’acqua è la sostanza da cui traggono origine tutte le cose; la sua scorrevolezza spiega anche i mutamenti delle cose stesse. Questa concezione deriva dalla costatazione che animali e piante si nutrono di umidità, che gli alimenti sono ricchi di succhi e che gli esseri viventi disseccano dopo la morte.”  
Talete

Uno dei problemi che l’uomo si troverà a fronteggiare nel prossimo futuro sarà l’approvvigionamento idrico. La popolazione mondiale in costante crescita, gli standard di vita sempre più alti e l’industrializzazione di molti processi produttivi fanno sì che in alcune aree del pianeta, e in determinati periodi, la domanda di acqua potabile superi la reale disponibilità. A livello sociale le ripercussioni sono enormi. Il World Economic Forum cita la mancanza di acqua dolce come la più importante minaccia in termini di impatto potenziale. Una ricerca pubblicata dall’università della California sostiene che la siccità che ha colpito la mezzaluna fertile a partire dall’inverno del 2006 per i tre anni consecutivi sia stata una delle cause scatenanti della guerra civile in Siria. Costringendo un milione e mezzo di persone a migrare dalle aree agricole alle periferie delle grandi città. 
Spostare le produzioni agricole sul mare potrebbe essere una valida soluzione, per utilizzare la più grande riserva idrica del pianeta, gli oceani. 
Grazie all’idea suggerita da due architetti italiani (Cristina Favretto e Antonio Girardi) il LIVN ha sviluppato un prototipo di “serra galleggiante” denominata “Jellifish barge”.
Jellyfish è capace di produrre alimenti vegetali senza consumare suolo e acqua dolce.
La desalinizzazione avviene per evaporazione utilizzando l’energia solare, per poi condensare in ambiente fresco. I vegetali sono prodotti con metodo idroponico, cioè senza uso di suolo, e l’acqua desalinizzata viene arricchita con una piccola quantità di acqua di mare per sopperire alla povertà di sali minerali. 
La struttura è modulare (come quella di un albero) in modo da poterne aumentare la dimensione in base alle necessità produttive. 
Produrre un cespo di insalata costa poco più che in una serra convenzionale, ma se acqua, aria e suolo non li consideriamo come beni gratuiti il bilancio è molto differente.
Jellifish barge è stato uno dei progetti italiani presentato all’expo di Milano nel 2015, ha galleggiato nell’ex darsena, ed ha vinto numerosi premi internazionali. 
Jelly fish non consuma energia esterna, come una pianta sfrutta l’illimitata energia solare e fotosintetizzando fissa il carbonio presente nell’atmosfera (sotto forma di anidride carbonica) producendo zuccheri che compongono il nostro alimento.

Le piante come testimoni: un valido aiuto nelle ricostruzioni storiche

“Li circuli delli rami delli alberi segati mostra il numero delli suoi anni […] e quali furono più umidi o più secchi, secondo la maggiore o minore loro grossezza.”
Leonardo da Vinci (1452-1519)

La scoperta che gli anelli concentrici delle piante siano la traccia annuale dell’accrescimento secondario è opera del genio di Leonardo da Vinci.
Questa scoperta e le sue osservazioni hanno poi portato alla dendrocronologia e dendroclimatologia moderne. Rispettivamente: il metodo che permette di stabilire la datazione di fenomeni meteorologici, giacimenti archeologici, ecc, attraverso lo studio delle correlazioni tra gli accrescimenti annuali di alberi fossili o a vita plurisecolare, e i fattori climatici. E lo studio del clima di una determinata zona relativamente agli alberi che la popolano.
Con queste conoscenze si possono ricostruire gli eventi storici passati con buona precisione affidandosi a quel registro storico rappresentato dall’accrescimento secondario delle piante (per accrescimento secondario si intende quell’accrescimento in larghezza che compensa l’aumento di altezza compiuto dall’accrescimento primario). 
È così possibile rispondere a domande insolute come quella posta agli storici sulla ritirata dell’Orda d’Oro.
Nel 1206 Gengis Khan viene riconosciuto come unico sovrano delle tribù mongole.
Sotto il suo comando i mongoli condurranno una campagna militare per l’espansione.
Grazie alla forza espansionistica riusciranno a conquistare gran parte dell’Asia e dell’Europa.
Dopo aver conquistato Mosca e Kiev nel 1240 partì un esercito di oltre 130.000 guerrieri, nel 1242 invade l’Europa. Dopo aver attraversato il Danubio e conquistato l’Ungheria qualcosa interrompe l’inarrestabile invasione. L’ Orda d’Oro si ritira inspiegabilmente attraverso i Balcani.
Gli storici hanno avanzato molte ipotesi, ma nessuna realmente convincente sul motivo della ritirata.
Recentemente, è stato condotto uno studio sul clima dell’Ungheria, eseguito con le tecniche della dendroclimatologia. Secondo quanto visto dallo studio, cinque anelli di accrescimento delle querce testimoniano il seguente andamento meteorologico: le estati dal 1238 al 1241 furono calde e secche, perfette per mobilitare un vasto esercito, mentre il 1242 fu caratterizzato, da condizioni climatiche avverse, freddo e umidità. In tali condizioni la pianura ungherese si sarebbe trasformata in un pantano con il doppio effetto di produrre insufficiente foraggio per i cavalli e un terreno impraticabile per una così vasta armata. 

Le piante custodiscono il nostro prezioso futuro

“Io vi do ogni sorta di graminacee produttrici di semenza, che sono sulla superficie di tutta la terra, e anche ogni sorta di alberi in cui vi sono frutti portatori di seme: essi costituiranno il vostro nutrimento.”
Genesi

Il nostro futuro è inseparabile da quello delle piante, la loro scomparsa significherebbe la nostra estinzione, E’ nata così l’idea di una cassaforte che custodisce il nostro futuro
Il Global Seed Vault è una cassaforte che contiene le risorse genetiche vegetali di migliaia di specie ad interesse agricolo per proteggerle dall’estinzione in caso di catastrofi planetarie. L’idea di una “banca dei semi” da utilizzare in caso di necessità è del botanico russo Nikolaj Ivanovic Vavilov (1887-1943) per limitare i danni delle ricorrenti carestie che affliggevano il territorio sovietico. Già nel 1912 conduce uno studio pionieristico intitolato genetica e agronomia che aveva l’obiettivo di migliorare le caratteristiche genetiche delle piante da coltivare. Obiettivo che Vavilov perseguirà per tutta la sua vita. Conosce Bateson, padre della nascente genetica, e tale incontro rafforzerà in lui la convinzione che sia possibile migliorare l’efficienza delle piante coltivate, applicando le leggi della genetica. Combinando le caratteristiche di pregio di varietà raccolte in tutto il mondo con ciascuna delle colture più importanti, avrebbe ottenuto delle super-piante per sfamare il suo paese. Intorno al 1916 inizia una campagna per raccogliere e poi conservare migliaia di campioni genetici in tutto il mondo. Raccoglie 50.000 varietà di piante selvatiche e 31.000 campioni di grano, ne conserva i semi nel suo bunker sotterraneo a San Pietroburgo diventando di fatto il precursore della conservazione della “biodiversità”. Nel 1929 l’Unione Sovietica cade sotto la dittatura di Josif Stalin, che giudica la genetica un “capriccio della scienza borghese”. Nell’agosto 1940 Vavilov viene arrestato, nel luglio del ‘41 processato. Nel gennaio ‘43 grazie ad un’eroica resistenza degli scienziati che ci lavorano la collezione di Vavilov resisterà all’assedio tedesco di Leningrado. Il 26 gennaio del 1943 Vavilov, l’uomo che sognava di sfamare la sua nazione grazie alla genetica, muore di fame nel carcere di Saratov, dove sarà sepolto in una fossa comune. 
Grazie al lavoro di Vavilov, che riesce a conservare oltre 250.000 specie in quello che oggi è conosciuto come Istituto Vavilov a San Pietroburgo, molti paesi, dopo la guerra creano la propria banca dei semi. L’instabilità politica, le elevate temperature di alcune latitudini hanno fatto sì che il 19 giugno del 2006 i ministri di Norvegia, Finlandia, Svezia, Danimarca e Islanda si riuniscano alle isole Svalbard per mettere la prima pietra di quella che sarà la cassaforte definitiva, sicura e inviolabile del patrimonio genetico delle specie coltivabili. Le temperature che non superano mai i - 3.5 °C, il trattato del 1920 delle Svalbard che proibisce il numero di attività pericolose sull’isola e le buone infrastrutture presenti, (strade, elettricità ecc.) hanno fatto delle Svalbard il luogo perfetto per tale fine. A differenza di una banca dei semi convenzionale, dove il materiale genetico conservato diventa soggetto alle leggi della nazione che lo conserva, senza alcun riferimento al luogo in cui è stato raccolto, col Global Seed Vault “ogni deposito di germoplasma rimane proprietà del depositario […] e non sarà aperto o usato da nessun altro senza il consenso del Depositario stesso”. 
Dal 28 febbraio del 2008, giorno dell’inaugurazione il Global Seed Vault, è già stato utilizzato dalla Siria a metà 2016 per ricostruire la proprie riserve distrutte dalla guerra civile.
Per noi occidentali, che viviamo in un mondo ultra-tecnologico, il cibo sembra essere un diritto acquisito, abbiamo la sensazione di essere affrancati da tale necessità. Ma niente ci distingue dagli altri animali in termini di dipendenza dai vegetali per la nutrizione. Il nostro cibo non è al sicuro da catastrofici cambiamenti climatici, come non lo era migliaia di anni fa. Fame e malnutrizione non appartengono solo a regioni più povere e più sfortunate dell’occidente. 

Conclusioni

“Le piante consumano pochissima energia, hanno un architettura modulare, un’intelligenza distribuita e nessun centro di comando: non c’è nulla di meglio sulla terra a cui ispirarsi.”
Stefano Mancuso

Abbiamo visto che progettare prendendo per esempio il modello vegetale ci può portare a soluzioni lontane dai nostri schemi abituali, trovando soluzioni vincenti a problemi che non possono essere risolti con il ricorso al modello centralizzato tipico degli animali.
Progettare in funzione del mondo vegetale è un modo per garantirci il futuro in uno scenario che ci impegnerà sempre più a trovare soluzioni per la nostra sopravvivenza. 
Lo sguardo dell’uomo per molto tempo si è rivolto solo al regno animale, più facile da comprendere  perché più simile a lui. Cambiando prospettiva possiamo ridisegnare nuovi confini, sviluppando soluzioni alternative a problemi ricorrenti e nuovi
Imitare la fotosintesi significherebbe fornirci energia, illimitata nel tempo, e a impatto zero. 
Un team dell’università di Harvard, guidato dal dottor Nocera ha condotto degli studi per imitare il processo fotosintetico, i risultati sono promettenti, ma ancora in stato embrionale. Il dottor Nocera è riuscito a convertire energia solare con un’efficienza del 10%, dato strabiliante se paragonato all’1% delle piante e al 4 % delle alghe più efficienti.
I passaggi che permettono la fotosintesi, comprendono la rottura dei legami della molecola d’acqua e la formazione di idrogeno molecolare. 
Se riuscissimo ad ottenere dall’acqua l’idrogeno molecolare con la stessa economicità con cui il processo è svolto dalle cellule vegetali riusciremmo a scrivere il nostro futuro. 

CONCLUSIONI

In questo lavoro non mi sono proposto di dimostrare l’esistenza dell’intelligenza vegetale, troppi sono i punti critici soprattutto riguardanti il linguaggio. Non esiste una definizione univoca e universalmente accettata di intelligenza. Se facciamo dell’intelligenza una attività cerebrale è ovvio che non riconosceremo mai intelligente un essere vivente privo di cervello e neuroni. Noi nel nostro complesso siamo un’estensione del nostro cervello, tutto ciò che percepiamo viene inviato ed elaborato nel cervello. Su questo modello ci basiamo come unità di misura per stabilire ciò che è intelligente e ciò che non lo è. Ma se facciamo dell’intelligenza un parametro svincolato dall’aspetto cerebrale e lo consideriamo la capacità di risolvere problemi, allora non abbiamo più scusanti nell’estendere questa funzione anche ad altri esseri viventi non appartenenti al regno animale. Ci dovremmo prima liberare di un linguaggio antropomorfico e adottarne uno non mediato dal filtro animale. Anche se non siamo al momento capaci di stabilire con certezza se gli organismi vegetali sono esseri intelligenti, siamo in grado di sostenere che sono in qualche modo “consapevoli” dell’ambiente in cui vivono.

La riflessione sull’intelligenza vegetale è per me un punto di partenza, il mio maggior interesse è rivolto alla natura umana. Questo lavoro mi ha fornito gli strumenti intellettuali con i quali intraprendere una riflessione sulla posizione dell’essere umano.  
La domanda alla quale con questa tesi tento di dare una risposta è: possiamo prendere come prototipo il modello vegetale per ispirarci nella risoluzione dei problemi?

Anche se il lavoro fin qui svolto è prevalentemente di carattere scientifico, spero che il risultato sia di aver predisposto una base di ricerca propedeutica per una riflessione filosofica. Da questa breve ricerca sono infatti emersi spunti di riflessione che conducono ad altri campi da indagare, questa volta con uno sguardo più filosofico. Gli argomenti che emergono sono: determinismo e libero arbitrio, una profonda riflessione sul concetto di intelligenza, adattabilità ed evoluzione. Una riflessione sull’antropocentrismo e l’ecologia profonda, che riconosce il valore intrinseco di tutti gli esseri viventi inseriti nelle biosfera. Le conseguenze che possono derivare da questi argomenti possono interessare la sfera del linguaggio, i diritti degli esseri viventi e consapevolezza di noi stessi.

Migliaia di anni di inurbamento hanno creato una frattura tra noi e quello che era il nostro ambiente naturale.
Molte delle nostre scelte (che compiamo come esseri umani), non tengono conto del pianeta in cui viviamo. Essere organismi consapevoli significa percepire l’ambiente in cui viviamo e prendere decisioni in relazione ad esso.  Se guardiamo al pianeta terra come al nostro ambiente naturale, e comprendiamo che le scelte che saremo obbligati a prendere sul nostro futuro dovranno riguardare la nostra interazione con esso allora il nostro comportamento sarà pienamente consapevole.

Ringraziamenti

Ringrazio mia moglie per avermi dato la possibilità di dedicarmi ai miei studi,
la mia compagna di università Bianca per avermi aiutato nella revisione del lavoro.
Ringrazio i miei genitori e tutte le persone che hanno creduto nella conclusione di  questo percorso.

Bibliografia

Capra, F.; La Botanica di Leonardo; Aboca; Arezzo, 2018.

Chamovitz, D.; Quel che una pianta sa; Raffaello Cortina Editore; Milano, 2013.

Hallè, F.; Ci vuole un albero per salvare la città; Ponte alle Grazie; Milano, 2018.

La Bibbia; Edizioni San Paolo Milano; 1997.

Mancuso, S.; Viola, A.; Verde Brillante; Giunti; Firenze, 2013.

Mancuso, S.; Plant revolution; Giunti; Firenze, 2017.

Mancuso, S.; Uomini che amano le piante; Giunti; Firenze, 2014.

Mancuso, S.; Botanica; Aboca; Arezzo, 2017.

Mancuso, S.; L’incredibile viaggio delle piante; Editori Laterza; Bari-Roma, 2018.

Mancuso. S.; La nazione delle piante; Editori Laterza; Bari-Roma, 2019.

Raimbault, P.; Atti del convegno “L’albero come entità biologica”; San Pietro in Casale (BO) 29 gennaio 2003.

Wohlleben, P.; La vita segreta degli alberi; Edizioni Macro, Cesena, 2017.

Sitografia

www.iltascabile.com

www.ilsussidiario.net

www.biopills.net

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Passione

«Scegli il lavoro che ami e non lavorerai mai, neanche per un giorno in tutta la tua vita»  Confucio

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